Leopardi e la poesia del secondo Settecento (1962)

W. Binni, Leopardi e la poesia del secondo Settecento, «La Rassegna della letteratura italiana», a. LXVI, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1962, pp. 389-435, poi in W. Binni, La protesta di Leopardi cit. È il testo di una relazione presentata al I Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 4 settembre 1962), ampliato e corredato di note per la pubblicazione sulla «Rassegna» e negli Atti del convegno (Aa. Vv., Leopardi e il Settecento, Firenze, Olschki, 1964, pp. 72-132.

LEOPARDI E LA POESIA DEL SECONDO SETTECENTO

Avvertenza (1974)

Il presente saggio è nato come relazione al primo convegno internazionale di studi leopardiani, a Recanati, il 4 settembre 1962, dove fu presentato in una redazione piú breve, che poi ampliai e corredai di note pubblicandolo nella mia rivista «La rassegna della letteratura italiana» (3, 1962) e negli «Atti» del convegno ricordato, Leopardi e il Settecento (Firenze, Olschki, 1964), relazione che ottenne un forte, e per me significativo successo da parte anzitutto dei numerosissimi giovani presenti al convegno – sensibili all’energica e antispiritualistica interpretazione leopardiana che questo studio piú specialistico implicava, anche nei rapporti fra Leopardi e la spinta feconda (e non «carcere») dell’illuminismo, permeato e arricchito dalle inquiete ansie del preromanticismo – ma anche da parte di maturi studiosi, alcuni dei quali forse troppo intesero il mio discorso come riprova moderna della validità delle positivistiche ricerche «fontistiche», mentre altri, piú esperti, piú correttamente ne riconobbero la prospettiva storico-critica di uno studio di poetica in movimento[1].

Ripubblico qui il testo già edito, con alcune ulteriori modifiche e aggiunte, anche se proprio il mio successivo studio piú analitico della personalità e dell’opera leopardiana e la stessa mia successiva sintesi della letteratura settecentesca (nel volume VI della Storia della letteratura italiana, Garzanti, 1968) mi porterebbero a rimetterci le mani con ampliamenti e precisazioni e correzioni che mi riservo invece di attuare in singoli casi con particolari ricerche (penso ad esempio al caso dei «puerilia» leopardiani o al caso del Varano o a quello, essenziale, del rapporto Alfieri-Leopardi), avvalendomi insieme delle sollecitazioni di nuovi studi altrui, per i quali qui mi limito a rimandare alle note bibliografiche sul tema da me trattato ritrovabili nell’introduzione e nel commento di G. Savoca alla meritoria edizione della Crestomazia italiana. La poesia, Torino, 1968, che offre, essa stessa, nel commento, una larghissima serie di nuovi puntuali riferimenti a versi e temi della poesia settecentesca presenti nell’opera poetica leopardiana.

Quanto al significato di questo saggio nella storia del mio itinerario leopardiano mi par chiaro che esso consista (al di là e al di dentro di acquisizioni di fatto sulla formazione e sullo sviluppo ideologico, sentimentale, culturale, letterario del Leopardi) nel sempre piú deciso rilievo del rapporto pensiero-poesia, nell’ulteriore accentuazione della crescente prospettiva sensistico-materialistica leopardiana, nei numerosi spunti circa l’origine e la natura del linguaggio leopardiano, nonché nel profilo abbozzato dello svolgimento della poetica leopardiana e dei modi originalissimi della sua utilizzazione di materiale letterario settecentesco, fino a quelli cosí significativi rilevati nel caso particolare della Ginestra. Sicché questo saggio, seppure in un’angolatura piú fortemente letteraria (e con scarti e differenze rispetto alla linea generale e a interpretazioni particolari entro la mia posizione attuale), è il presupposto piú vicino della mia piú recente ricostruzione leopardiana: le dispense dei corsi universitari romani (1964-1967) e la loro sintetica e ripensata esposizione nel saggio del ’69, ripubblicato nella prima parte del presente volume.

I

I rapporti del Leopardi con la poesia del secondo Settecento possono venire anzitutto parzialmente chiariti attraverso quanto egli disse, nell’avvertenza Ai lettori, di quel periodo da lui cosí ampiamente antologizzato (ben duecentottanta pagine, contro le centoventi concesse al Cinquecento nell’edizione originale del 1828[2]): «cerchino [i giovani in questi brani] sentimenti e pensieri filosofici, ed ancora invenzioni e spirito poetico, ma non esempi di buona lingua, né anche di buono stile»[3].

Ciò può chiarire (nella prospettiva didascalica delle Crestomazie) che l’esemplarità di lingua e di stile dei classici antichi ed italiani rimane un punto fermo nel Leopardi, e che uno studio come il presente è ovviamente sospeso a questa considerazione e al riconoscimento ovvio della complessità della formazione del Leopardi, della sua profonda originalità personale e della stessa attualità storica che risponde a problemi sviluppatisi al di là del puro e semplice ambito tardosettecentesco.

Ma, d’altra parte, mentre le stesse indicazioni di interesse denunciate dalla frase citata e dall’abbondanza di brani antologizzati ci confermano pure la particolare attenzione del Leopardi per quella zona a lui immediatamente precedente, come a zona ricca di «sentimenti e pensieri filosofici», di «invenzioni e di spirito poetico»[4], bisognerà dire, alla luce di una prospettiva storico-critica fondata sullo studio della poetica[5], che quella zona è la piú vicina alla formazione dei suoi temi e della sua sensibilità, quella da lui piú fortemente usufruita, e che, in una storia intera della sua personalità, ricca di un potente sviluppo e di un colloquio fecondo col tempo immediato e precedente in cui si formò (e dunque secondo un’immagine assai diversa da quella di un Leopardi immobile, solo spettatore alla finestra, tutto chiuso nel suo originale e unico animo idillico), le esperienze, le letture della letteratura del secondo Settecento hanno un posto e un peso rilevantissimi. Peso da misurare (in uno studio ben lontano dalla vecchia impostazione «fontistica» cui pure siamo debitori di tante utilissime indicazioni) secondo strati e incidenze diverse di accettazione piú passiva, di rivissuta memoria attiva, di incontri di fondo, entro lo sviluppo della formazione e dell’attività poetica leopardiana, ma che in generale può precisarsi preliminarmente in rapporto a ciò che quelle esperienze implicavano piú profondamente. Perché pur guardando in questo studio al preciso argomento dettato dalla relazione affidatami (Leopardi e la poesia del secondo Settecento) e quindi escludendo la storia particolare dello Zibaldone, delle Operette morali e quella ricostruzione della cultura e del pensiero leopardiani che han cosí profondi rapporti con il Settecento – specie nelle sue fasi piú mature e tarde – non si può trascurare il fatto che gli stessi rapporti del Leopardi con la poesia della zona indicata implicano almeno la necessità di un accenno ad una prospettiva piú vasta ed integrale entro cui meglio si renderebbero valide le mie generali istanze metodologiche e quel bisogno di una ricostruzione intera che presiede al mio generale lavoro in corso sul Leopardi.

Anzitutto l’esperienza dell’illuminismo nel suo fondo culturale e pragmatico e non solo letterario: quell’illuminismo che non fu «carcere», ma forza per il Leopardi. Perché se egli ignorò o non accolse la dialettica e lo storicismo, da ciò pur nacque la sua forza nella suprema diagnosi della situazione umana (cosí viva ancora per noi, malgrado la nostra coscienza ed esperienza della dialettica e dello storicismo) ed una delle ragioni piú interne e vitali e storiche della sua profonda poesia, in relazione del resto ad una specie di via romantico-illuministica italiana che congiunge Alfieri, Foscolo (specie quello ortisiano tanto sentito dal Leopardi) e Leopardi. L’illuminismo fu non solo fornitore a Leopardi di materiali e stimoli filosofici e morali, ma scuola di coraggio della verità, di bisogno di estrema chiarificazione, di lucidità ad ogni costo sulla via del suo attivo pessimismo. Non si tratta di fare o combattere la storia dei «se» (se Leopardi avesse accolto la dialettica ecc.), ma di considerare per quella che è la situazione culturale leopardiana e di capirne, senza rimpianti o scuse, la forza positiva e il rapporto con la sua poesia, nata su quella forza, non da quella prescindendo e misteriosamente separandosene.

Ad altro livello il secondo Settecento offriva al Leopardi la via e l’esperienza del neoclassicismo con i suoi elementi winckelmanniani piú profondi, fruttuosi nel Foscolo. Orbene il Leopardi, pur fedele ai classici, non accettò quella via, ne usufruí solo marginalmente, scartando sia l’esperienza classicistico-rococò (se si esclude il singolare caso del Risorgimento che usufruisce, in parte, anche di elementi di quel gusto) sia la piú vera via neoclassica con il mito della bellezza ideale e l’uso della mitologia[6] come unico linguaggio della poesia (e rifiutando insieme il tipo dell’ode neoclassica). Sicché, malgrado il suo profondo, ma singolarissimo classicismo, egli si aprí a nozioni vitali e poetiche piú moderne, e la sua perfezione è piú porosa e densa, rifiuta ogni tipo di smaltatura o di marmorea perfezione neoclassica (magari il marmo che imita il calor della carne, secondo la interpretazione canoviana della Teotochi-Albrizzi) per un linguaggio piú tenero, ricco di cadenze sentimentali-musicali, di amore per la realtà, anche quando si fa piú energico e sinfonico, con tutta una serie di implicazioni interne che distinguono la via leopardiana da quella foscoliana postortisiana, pur cosí mossa da istanze romantiche e cosí poeticamente alta. Si pensi alle figure di Silvia e Nerina e a quella della giovinezza delle Grazie e si avrà un esempio calzante proprio sul margine di una maggior vicinanza tematica. O si pensi alla diversità sintomatica – in un caso di due altissime soluzioni liriche del tema della brevità e caducità della vita degli uomini – fra la musica del verso foscoliano delle Grazie, E dopo brevi dí sacri alla morte, e quella, nell’Ultimo canto di Saffo, della diagnosi leopardiana dell’iter biologico-esistenziale dell’uomo: «Ogni piú lieto / giorno di nostra età primo s’invola. / Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra / della gelida morte». Nel verso foscoliano la soluzione lirica è consolidata in una musica squisitamente vibrante e insieme quasi vitrea, increspata dallo squillo del «dí», con tutto il suo corrispettivo di un senso sacro-fatale-dolente della caducità umana. Nei versi leopardiani la soluzione lirica è diversamente concreta, fisicizzata, densa di suggestioni rapprese in una sonorità tutta interna al ritmo lento, essenziale, scandito, pausato e inesorabile, tutta legata (senza nessuna ricerca di smaltatura vitrea e di ogni increspatura squillante di suoni) al peso delle parole decisive, fino all’immagine piú espansa e ossessiva dell’«ombra della gelida morte», cosí suggestiva e sensistica, che si riverbera su tutto il percorso della vita umana dispiegato nella sua tremenda inesorabile sequenza.

Ben piú importante fu per il Leopardi la direzione preromantica, che non è una pura moda letteraria o moda «nordica», ma implica (con nessi che la legano alla tensione neoclassica e alla ricchezza interna dell’illuminismo) una autentica inquietudine della sensibilità e della spiritualità, una problematica seria, impegnativa anche se irrisolta e spesso compromessa da remore di vario genere, sulla natura dell’uomo, sulla sua sorte, sul rapporto vita-morte, che alimentano dall’interno un vagheggiamento idillico a fondo elegiaco, un lamento e un nesso di interrogazioni ed esclamazioni dolenti, moduli e stilemi corrispettivi di una crisi intima e storica, di un’ansia esistenziale profonda[7].

Da questa zona fortemente sentita in tutti i suoi autori piú significativi italiani ed europei (in gran parte attraverso le traduzioni preromantiche italiane), da questi testi, letterari, ma sollecitanti anche per problemi meditativi (sí che essi spesso aiutarono precocemente il Leopardi a intuizioni in poesia che solo piú tardi e lentamente sarebbero state sistemate riflessivamente nello Zibaldone e nelle Operette), il Leopardi riprese spinte essenziali alla sua poesia portandone i problemi, i moduli letterari e il lessico poetico alla loro maggiore profondità e al loro senso piú interno, sfoltendo le forme piú facili ed edonistiche o pratiche, e ricavandone come il succo piú intenso. E certo con un rinnovamento profondo che può far apparire tanti testi preromantici sin troppo grezzo materiale «preleopardiano» tanta è stata la forza della ripresa e trasfigurazione leopardiana, del supremo suggello poetico impresso dal Leopardi a germi e avvii piú incerti, sviati, ambigui. Perché il Leopardi, piú dell’Alfieri stesso (che può presentarsi come la punta estrema e poetica del preromanticismo in Italia), piú del Foscolo, risalí piú direttamente ai piú densi nuclei preromantici (e dunque anche ad Alfieri) in ciò che avevano di piú scopertamente e nuovamente sensibile e inquieto e preesistente alla siglatura neoclassica del Foscolo.

Naturalmente tutto ciò ha una sua storia varia di letture, di esperienze, di incontri di vario valore e che variamente agiscono in forma piú immediata ed effimera o piú in profondo e a distanza, e a seconda delle interne spinte ed esigenze leopardiane. E naturalmente, ripeto, tutto ciò rivela meglio il suo vario valore funzionale e formativo, quando si possa (come qui non può farsi che per accenni) immetterlo in tutta la compiuta storia del Leopardi, in tutta la vicenda storico-personale della sua formazione e del suo sviluppo, insieme alle occasioni vitali, agli incontri con persone vive e con dimensioni attuali, nell’attrito con la storia del proprio tempo. Né dovrò dimenticare di scusarmi preliminarmente se i limiti del presente studio mi vietano di indagare anche sui rapporti del Leopardi con le offerte dell’estetica e della linguistica secondosettecentesca e, piú, con il pensiero illuministico, specie nel suo tardo sviluppo materialistico.

Ché mi preme ancora di ricordare che questo studio è solo un elemento per una ricostruzione della storia leopardiana e che esso si situa ben lungi dalla pretesa (da me sempre combattuta in sede metodologica e critica) di ridurre la storia dei poeti a quella dei loro rapporti letterari che pur ben rientra come elemento parziale di storicità nella mia prospettiva di studio storico-critico fondato anzitutto sullo studio di poetica.

II

L’esperienza leopardiana della letteratura del secondo Settecento ha una sua prima forma nella prima attività del 1809-12: attività inizialmente scolastica, legata alle esercitazioni accademiche familiari, alla educazione del Sanchini e di Monaldo, limitata dalla stessa sua non considerazione da parte del Leopardi che sancirà, seppur troppo rigidamente, l’inizio della sua carriera letteraria e poetica solo nel 1816 come conversione successiva alla sola attività erudita-filologica[8]. A me pare che quella produzione «puerile», dominata da un eclettismo scolastico (anche se prova di una precocissima disposizione scrittoria) non possa essere sottoposta a un esame troppo esigente e fiducioso sia per quanto riguarda germi personali autentici, sia per quanto riguarda un’esperienza letteraria che prepari saldamente il successivo sviluppo della formazione letteraria leopardiana[9].

Tutto sommato, come i germi di «idillio» e di prosopopea eroica van ridotti entro modeste proporzioni di esercitazione retorica ed entro i limiti di suggestioni e calchi passivi e ravvicinati, cosí questi ultimi risentono troppo di un’educazione di tipo umanistico-retorico di derivazione gesuitica e di impronta monaldesca e si situano fra una ripresa di stanca Arcadia conservativa nel canzonettismo e favolismo, al massimo insaporito di elementi bertoliani, nel sonettismo eroicograndioso tra Frugoni e Fusconi, nell’ingenuo tentativo tragico che si colloca fra echi del Metastasio pseudo-eroico, tragedia gesuitica ed esempi gesuitico-monaldeschi, e nel gusto, nell’insieme piú piacevole e affabile, di scherzi, epigrammi e travestimenti comici ed eroicomici (L’arte poetica di Orazio, travestita in ottava rima) che si avvale di esempi sei-settecenteschi (fra il Malmantile del Lippi, il Ricciardetto del Forteguerri e l’epigrammismo del Bettinelli). Il tutto inquadrato in una prospettiva di esercitazione (si pensi ai brani in latino disposti secondo il tipico gusto delle scuole gesuitiche contro cui si batteva il Giordani) e in una soffocante atmosfera retriva[10] che il giovane verrà allargando e poi spezzando dall’interno a forza di nuove letture (nel 1813 avrà il permesso di leggere i libri proibiti), di nuove meditazioni personali, e, solo nel ’17, con l’incontro decisivo del Giordani (e attraverso lui, del classicismo milanese a fondo liberaleggiante, nel ’15-16 solo orecchiato attraverso la «Biblioteca italiana»), con tutto un movimento di forze intellettuali che sembrano in generale precedere lo sviluppo di una piú vera sensibilità e fantasia leopardiana solo sporadicamente affiorate nelle forme piú scolastiche dei «puerili».

Da un punto di vista di livello di attualità delle sue letture, si potranno indicare alcune letture, piú tardi molto sollecitanti, come quella del Gessner chiaramente ricalcata nell’idillio L’Amicizia (centone gessneriano, con base La tomba dell’uomo dabbene) e qualche eco assai mescolata di elementi younghiani e ossianeschi in gran parte derivabili dalla stessa presenza di elementi simili nello stesso Gessner e in tarde divulgazioni di Arcadia grandiosa e postfrugoniana. Troppo poco per ricostruire un cerchio saldo di letture ed esperienze moderne e per ricavarne a questa altezza (come meglio può farsi nel caso del giovanissimo Foscolo della raccolta Naranzi) un’esplorazione veramente significativa della letteratura di secondo Settecento.

D’altra parte, nella fase dominata dagli studi eruditi e dagli avvii filologici, a chi rilegga la Storia dell’astronomia, del 1813, alla ricerca di tutto ciò che quel testo piú compilatorio può darci (il primo effetto di un contatto con la cultura illuministica rilevabile nell’accettazione di uno schema di progresso della ragione e della scienza sostanzialmente continuo, pur entro un quadro provvidenziale-cattolico, l’entusiasmo per gli scienziati-eroi perseguitati e vincitori delle persecuzioni, con qualche eco dei «martiri della ragione» del Newtonianismo algarottiano[11]) non può sfuggire l’utilizzazione diretta di quello scrittore «immaginoso», la cui citazione il Leopardi si affretta a concludere come uno squarcio non scientifico limitabile di fronte al suo impegno di storico del progresso scientifico, segnalando cosí una certa eterogeneità di quel brano eloquente rispetto alla trama raziocinante ed espositiva dell’opera.

Si tratta appunto dello squarcio enfatico e liricheggiante sulla infinità dei mondi[12] che, mentre non autorizza (insieme a qualche brano minore di simile impostazione[13]) a una precisa identificazione della vocazione leopardiana alla poesia del cielo e del cosmo, quale deriverebbe dalla stessa scelta dell’argomento[14], rimanda, come dicevo, a un testo preciso di cui il Leopardi opera un riassunto abbastanza abile rilevandovi il paragone della terra ad «un punto» e degli astri a «granelli di sabbia» luminosi, che ritornerà centralmente a sostenere l’impianto lirico della strofa quarta della Ginestra[15].

Questa stessa persistenza di un’immagine cosí importante nella memoria attiva del Leopardi indica comunque la forza della lettura delle Notti dello Young dalla cui notte XXI era riassunto il brano ricordato.

E sotto quella ripresa diretta, disposta in un riassunto che già può indicare la tendenza leopardiana a sfoltire e raddensare un testo piú effusivo e ripetitorio, fermentava la suggestione di una lettura che non possiamo non indicare come fondamentale nella formazione leopardiana, come una miniera di stimoli vivi fra meditazione, sviluppo sentimentale e intuizione poetica, come uno dei primi strati di esperienza di quella letteratura della crisi preromantica che proprio alla luce di Leopardi (e, prima, di Alfieri e di Foscolo, ma, ripeto, soprattutto di Leopardi) rivela la sua ricchezza di moduli espressivi (le interrogazioni, le esclamazioni dolenti, le sentenze elegiaco-pessimistiche) e di inerenti problemi irrisolti, dell’inerente irrequieto muoversi di una sensibilità eccitata e svariante fra orrore e dolcezza che solo superficialmente si possono ridurre nelle forme di una «moda» unicamente letteraria.

Le pagine ossessive e caotiche del libro dello Young possono ormai apparire di insostenibile lettura continua, e il Leopardi piú tardi (meglio che in quel riassunto giovanile) ne resecherà i margini enfatici e prolissi, come piú tardi ne rifiuterà quella destinazione pia che ora accettava a conclusione del brano riassunto, riassorbendone poi dall’interno della sua potente struttura intellettuale-poetica e della sua casta energia il succo piú profondo e denso.

Ma quante offerte, quanti stimoli (come già osservò su di un piano di fonti e di paralleli il Negri[16]) alla fantasia e alla meditazione leopardiana dovettero presentarsi nella lettura e nel ricordo e nell’assimilazione di quelle pagine che spesso poterono appoggiare l’espressione piú immediata di apoftegmi pessimistici in alcune delle sue poesie piú giovanili in relazione ad un’intensa, ma meno chiarita sofferenza personale e prima del consolidamento riflessivo delle posizioni proprie nello Zibaldone e nelle Operette morali. Il che, si badi bene, non è un modo di far prevalere sui moti interni di un animo e di una mente originalissima il peso delle letture e di ricostruire la formazione del Leopardi solo sul filo delle esperienze letterarie, ma un modo storico-critico di ricostruire un’intera forma di svolgimento di una personalità fra spinte esterne e occasioni adiuvanti di esperienze e letture che diventano a un certo punto sangue e linfa sua, interamente sua.

Cosí, sulla via della complessa formazione del sentimento dell’infinito che si alimenterà di tanti altri stimoli preromantici, già nello Young (e nella piú precisa sollecitazione delle traduzioni italiane, specie di quella in prosa del Loschi[17] e dunque già in forma di mediazione e avvio di linguaggio) si trovano elementi di base nelle insistite indicazioni degli «spazi incommensurabili» dell’«illimitato spazio» che «l’idea risveglia di un’infinita durazione»[18], dell’infinito come «abisso dove il pensiero si perde e svanisce»[19] e come «un mare illimitato» in cui «non scopro lido veruno a cui mi possa approdare»[20].

Cosí, in altre direzioni leopardiane, le immagini contrastanti dell’«errore» giovanile «di una durevole felicità» («In qual universo incantatore abitava la mia gioventú! Con quai ricchi colori la mia vivace immaginazione mi rappresentava tutti gli oggetti! Dovunque io volgeva il guardo, a qualunque parte io tendeva l’orecchio, io non vedeva che un apparato ridente, che prospettive dilettevoli e varie, che piacer seguaci in lunghissima serie di altri piaceri, io non ascoltava che promesse di prosperità e di gioja»[21]), dello scompenso fra le illusioni giovanili e il loro svanire, misurato sull’improvviso sfiorire e scomparire di creature giovani, pure e belle («Quanto è piú splendente, tanto è meno durevole la vita. Come la gioventú e la salute lampeggiavano dagli occhi di mia figlia... Come bella era ed avvenente!... Qual vezzo aggiungeva in lei la innocenza alle attrattive della giovinezza! Quanto ilare e gioviale era sempre il suo volto!... Come repentinamente essa è stata sbalzata dall’apice della contentezza!»[22]), della solitudine e perfidia del «mondo»[23], «deserto tetro ed ignudo»[24], «fango»[25] («quel perfido mondo che mai sincero non fu sperimentato dai suoi piú fidi seguaci, di quel mondo avaro, che dà sí poco e che sí tosto ripiglia indietro i doni suoi»[26]).

O la meditazione sulla vecchiaia «morte» della «speranza» e «logoramento» dell’uomo[27], sulla caducità degli imperi («cadono pure gli imperi. Dov’è l’impero de’ romani? dov’è quello de’ greci? Eccoli divenuti un suono della nostra voce»[28]), sulla sorte piú felice degli animali e su quella infelice di tutti gli uomini («guida le tue greggie in un pascolo pingue: tu non le udrai belar mestamente... Ahi la pace di cui godono esse, è negata ai loro padroni. Un tedio e una scontentezza che non dà mai tregua, rode l’uomo e lo tormenta da mane a sera. Il monarca e il pastore ugualmente si querelano della loro sorte»[29]), sulla sperata partecipazione delle stelle al dolore degli uomini e viceversa sulla sordità della natura al lamento del poeta («Non abbiamo che le stelle per testimoni; sembrano esse talor sospendere il corso delle loro orbite per inchinarsi a udire le voci della tua mestizia: ahi! tutta la natura sorda solamente e insensibile è al mio lamento!»[30]), o sulla morte liberatrice[31], sulla noia, sulla vocazione al suicidio. E al culmine di questa tensione dolorosa, che poi lo scrittore inglese volgeva a glorificazione dell’eternità e di Dio, salivano (seppure in bocca all’incredulo combattuto dall’autore) le proteste piú disperate di un Giobbe preromantico piú coerente e deciso contro la natura inutilmente vagheggiata dall’uomo – il quale dovrà poi «confessar sospiroso che la propria sciagura è la piú stupenda delle sue meraviglie» – contro lo stesso Dio «crudo tiranno» assimilato dai suoi «motivi arcani» alla «arcana ragion di stato dei tiranni mondani», che «ama le ruine e di regnar si compiace sopra un deserto», il cui «fulminante decreto» contro gli uomini è: «Voi tutti sarete mortali e tutti infelici». E a lui gli uomini «schiavi oppressi da un invisibil tiranno», rivolgono questa domanda: «Son forse codesti i tuoi decantati benefici?... Domandato io non t’avea che tu mi facessi nascere... Con una barbara prelazione tu mi arricchisti del pensiero, e mel converti in una facoltà di soffrire, della vita, e me la converti in una facoltà di morire»[32].

Se la lettura delle Notti si inserisce profondamente nello sviluppo intero del Leopardi, mi sembra che qualche eco indiretta se ne possa cogliere già in quell’altra opera del periodo erudito, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in cui, nell’immutato quadro cattolico, la linea di progresso illuministico si articola in maniera piú contorta ed incerta attribuendo all’errore una sua forza sempre rinascente e quasi una sua inevitabilità nella natura umana[33] (ed è qui che elementi pessimistico-cristiani[34] si rinforzano nel contatto col tema younghiano della miseria e limitatezza umana), mentre gli errori popolari degli antichi, accordati con gli errori e i timori fanciulleschi, assumono una specie di attrattiva immaginosa accresciuta dall’abbondanza e suggestione dei testi poetici citati latini e greci (tradotti questi e sentiti, nella dedica al Mustoxidi, come «incantati alberghi delle Muse»[35]) e sostengono brani di andamento poetico su cui si fermarono a lungo il De Robertis e il Russo, con una certa forzatura di tempi e di «envergure» dei testi. Dico forzatura non perché nel Saggio non vi sia, connessa con la stessa maggior complessità dello schema intellettuale, una maggior animazione generale di immaginazione e una incipiente volontà artistica, ma perché gli stessi quadretti idillici piú ammirati, come quello del Meriggio, hanno una base letteraria ancor troppo ravvicinata, una gracilità e un limite di grazia piú manierata («tutto è bello, tutto è delicato e toccante»[36]) che risale, molto da vicino, a quella scuola gessneriana usufruita in forma ancor piú diretta e scolastica nell’Amicizia già ricordata.

Qui il rapporto è piú vivo e la lettura gessneriana merita di esser segnalata anche perché, nei limiti di gracilità letteraria già notati[37], la sua efficacia comincia a penetrare piú profondamente nel nesso fra sensibilità e volontà artistica del giovane scrittore, e, mentre sorregge brani precisi del Saggio come il Meriggio (il testo di appoggio è sempre La tomba dell’uom dabbene, nel passo che comincia «Era il meriggio», ed esso detta la trama del brano leopardiano con la serie dei particolari realistico-idillici[38]), influisce anche nella traduzione coeva degli idilli di Mosco.

In questa, partendo da una base di traduzione tardosettecentesca, quella del Pagnini[39], il Leopardi ne diverge per alcune piú forti sottolineature di condizione idillica e, piú, idillico-elegiaca in chiave gessneriana. Basti, in proposito, ricordare l’inserimento di un aggettivo tipicamente gessneriano, e poi leopardiano, come «quieto» (o «queto» e «cheto») nella descrizione di Europa dormiente che arieggia alla situazione della donna dormiente della Sera del dí di festa:

Quai sogni mi turbar, mentre tranquilla

nel mio letto dormia sí dolcemente

nelle mie quiete stanze?[40]

Mentre il Pagnini traduceva:

[...] Quali in mie stanze

sogni mi sbigottir mentr’io dormia

sí dolcemente sulle agiate piume?[41]

E nel Canto funebre di Bione si noti l’abbondanza di aggiunte di aggettivi «mesti», «teneri», «dolenti», e l’accentuazione della privazione prodotta dalla morte e del contrasto tra il rinascere dei fiori e la scomparsa definitiva degli uomini con la morte.

Il Pagnini traduceva:

Poiché le malve son negli orti spente,

o il verde appio, o il fiorente, e crespo aneto,

rivivono, e fioriscon un altr’anno.

Ma noi, uomini grandi, e forti, o saggi,

come prima siam morti, in cava fossa

lungo, infinito, ineccitabil sonno

ahimé! dormiamo. Or in silenzio avvolto

starai sotterra...[42]

Il Leopardi amplifica elegiacamente:

Ahi tristi noi! poiché morir negli orti,

le malve o l’appio verde, o il crespo aneto,

rivivono, e rinascono un altr’anno.

Ma noi ben grandi, e forti uomini, e saggi

dormiam poiché siam morti, in cava fossa

lunghissimo, infinito, eterno sonno,

e con noi tace la memoria nostra.

Or tu sotterra in tenebroso loco

sempre muto starai...[43]

Né è a caso che nel 1818 il Leopardi riportasse questi versi da lui tradotti nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica come prova della sentimentalità della poesia antica[44].

Vicino ai brani del Saggio e alla traduzione «intenerita» di Mosco c’è dunque una piú chiara lettura di Gessner che rifluiva anche nel primo tentativo di poesia propria, dopo l’epoca del tradurre poetico: quell’idillio Le rimembranze, del 1816, che rimane però, tutto sommato, non molto piú che un interessante e sensibile esercizio in margine alle traduzioni e che comunque sviluppa piú che il gusto di Mosco quello del Gessner (base la solita Tomba dell’uom dabbene con qualche rinforzo piú elegiaco di tipo ossianesco) ripreso anche in certa fiorettatura tardo-arcadica (con qualche eco zappiana-bertoliana) intorno a piccole entità di natura, a gesti fanciulleschi, a oggetti graziosi (il panierino, l’insetto colto a volo dalla mano del fanciullo) nello schema dialogico (che ritornerà poi interamente solo nel frammento Odi Melisso), in certo amore di interni domestici intravvisti dall’esterno e nell’acme elegiaca non priva di qualche leziosità.

Resta comunque chiaro che in complesso l’idea dell’idillio risale soprattutto all’idillio sentimentale di Gessner, che, già nella sua ambiguità preromantico-rococò, impostava un idillio legato ad una situazione (se non ad un’«avventura storica del proprio animo», secondo l’essenziale definizione leopardiana del ’28), ad una vicenda sentimentale, e dunque già lungi da quell’idillismo senza «passione» contro cui si pronunciava il Leopardi in un notevole pensiero dello Zibaldone, del 26 gennaio 1822[45].

E la gentile versione del Soave (insieme a quella piú rigida, ma non inefficace del Perini per Il primo navigatore) ben presentava il gracile e delicato mondo idillico-elegiaco del piccolo scrittore svizzero, offrendo avvii e termini di linguaggio usufruiti dal Leopardi specie nella zona idillica del ’19-20.

Si rilegga cosí l’avvio dell’idillio La serenata:

Era la notte placida e serena,

e di ponente un venticel leggiero

l’ardor temprava del caduto giorno...

i campi erano queti...

Della pallida luna il solo raggio,

sull’onda mormorante de’ ruscelli

gía tremolando; e qualche luccioletta

vagava pur fra ’l bujo; ogni altro lume

era già spento...

Era la notte nel suo volger queta...[46]

O questa apertura di scena lunare (nella Dichiarazione):

Già dietro quelle scure erte montagne

s’alza la luna, già il suo argenteo lume

splende attraverso a’ pini, che corona

fanno all’acute cime...[47]

O questa invocazione alla luna (sempre nella Dichiarazione):

Pallida e queta luna, or testimonio

tu sii de’ miei sospiri...[48]

O questo paragone fra la caducità del narciso e della giovinezza:

In tua freschezza ancor l’alba ti vide;

or se’ svenuto, ahi lasso! cosí pure

la giovinezza mia si verrà meno.[49]

E, nell’aggraziato e manierato svolgimento novellistico, si profilano figure di fanciulle illuminate dalla gioventú, dalla bellezza, dall’innocenza

(il primo fior dell’innocenza in volto

le sorridea...[50]

l’ilarità sul volto

gli brillava, e la fresca giovinezza...[51])

mentre ad esse si accompagnano cadenze dolenti (che poterono fondersi con i piú precisi moduli elegiaci ossianeschi) sul tema dell’«acerba rimembranza», della scomparsa dalla vita

(Ahi, che tu piú non vivi! piú non vivi,

di mia vita conforto, e nella nostra

miseria unico schermo, unica speme...[52]),

sul contrasto fra l’immagine rievocata della bellezza femminile o di una illusione giovanile e la loro perdita:

Era la gioja mia fedel compagna,

or mi fugge, e m’aborre: ombre lugubri

scendon per me dai boschi, amene un giorno,

il solo aspetto delle verdi piante

felice mi rendea; se i vaghi fiori

spandeano intorno a me grati profumi,

io mi credea... Ma, oh Ciel! tutto disparve,

ogni gioja, ogni ben....[53]

E, nel paesaggio a tenui colori, piú tardi ripreso nel Tramonto della luna, particolari di linguaggio e spunti di situazione contemplativa sembrano contribuire alla complessa genesi dell’Infinito e del brano contemplativo della Vita solitaria: «ermo loco», piacere della solitudine, paragone di un luogo limitato e di spazi infiniti:

[...] O voi liquidi piani

al cui confine questi occhi non vanno,

ditemi voi, se questo picciol punto,

quest’isoletta, cui l’ondoso seno

vostro circonda, che ben punto, e nulla

è comparata a voi, laghi infiniti...[54].

III

Ma nel 1816 i piú decisivi tentativi di poesia «propria» hanno altra direzione e richiamano altri appoggi letterari, sollecitati anche da quell’impegno di traduttore di opere piú alte e solenni (Eneide, Odissea, Titanomachia), fra ’16 e inizio del ’17, e da quella volontà di classicismo che punta sulla ripresa italiana di Parini, Alfieri e Monti, dichiarato nella lettera alla «Biblioteca italiana», del 18 luglio 1816.

Un tentativo interessante, rimasto allo stato di abbozzo, è quella tragedia Maria Antonietta che, materiata di elementi della agiografia antirivoluzionaria, colpisce per l’intensità di una situazione centrale di sofferenza aristocratica («magnanimità... tenerezza», «trasporti fierissimi, tenerissimi» che rivelano qualche precoce eco alfieriana impastata con i richiami gessneriani della memoria acerba e dell’affettuoso «tu»: «oh sventurata..., oh cara») e per certa abbozzata capacità di tensione sentimentale e di effetti forti e sensibili che fanno pensare a un certo gusto montiano (la forte pagina del secondo canto della Basvilliana sull’apertura della giornata d’orrore dell’esecuzione del re) complicato da una graduazione delle sensazioni nel loro attenuarsi e svanire che può rimandare a una certa tecnica ossianesca che rileveremo piú tardi: «appoco appoco cessano i cannoni... s’acqueta il tumulto... m’inganno o sento di nuovo lo strepito del carro che torna a incamminarsi... suono di tamburi nuovamente..., tutto s’allontana appoco appoco... silenzio...»[55].

Il tentativo di maggiore impegno è però costituito dalla cantica Appressamento della morte, alla fine del ’16, in cui il Leopardi volle riversare una folla di sentimenti e di sfoghi morali scatenati dal presentimento della propria morte precoce, piú direttamente espresso nell’ultima parte del componimento alla quale piú si riferisce l’accenno fatto dal Leopardi alla Cantica nel pensiero zibaldonesco del 1° luglio 1820 parlando della propria carriera poetica nell’adolescenza: «Ben è vero che anche allora quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell’ultimo canto della Cantica»[56].

Quella massa di sentimenti e di sfoghi (ancora configurati in personificazioni della mitologia cattolica e in direzione moralistico-religiosa, ma spostati fra forte appello vitale e scontentezza e disagio esistenziale e ideologico) cercava anche una costruzione, uno schema generale accogliente, articolato e insieme appagante il desiderio di una poesia di immaginazione come quella degli antichi, ma in una moderna prospettiva italiana.

E il Leopardi si volse a quel tipo di poesia «visionistica» del Varano e del Monti (con dietro echi del Minzoni e del Frugoni «grandioso») che, su allegorie cristiane e dantesche-petrarchesche (del Petrarca dei Trionfi), aveva rappresentato nel secondo Settecento una delle vie di riscossa velleitaria della poesia «forte» e «grandiosa» di contro all’edonismo classicistico-rococò e al classicismo didascalico-illuministico[57].

Il Monti offriva lo schema piú elaborato della visione in senso scenografico e narrativo, con l’alternarsi a contrasto di scene e paesaggi sereni, radiosi, estatici e tempestosi, cupi, inquieti, con uguale espansione di colori e suoni («il poeta dell’orecchio e dell’immaginazione», che sarà poi il giudizio limitativo del Leopardi su di un maestro provvisoriamente affascinante e poi recisamente rifiutato)[58].

Mentre il Varano, che a quello schema aveva dato l’avvio in forme piú aggrumate e risentite con le sue Visioni sacre e morali, piú intimamente assecondava il giovane scrittore nella sua spinta moralistico-espressiva, nella sua estremistica contrapposizione di valori e disvalori che qui esplode in una direzione ancora ingenua di una genuina, disperata tensione morale, alimentata poi dagli sdegni morali pariniani e, ben piú, dalla violenza morale e linguistica dell’Alfieri.

La squalifica del mondo e dei suoi vizi, la fisicità del disgusto ricavatone, si avvalgono ora dell’appoggio del Varano (uno scrittore incondito e velleitario quanto si vuole, ma, nella sua direzione aristocratico-cattolico reazionaria, non privo di un risentimento moralistico intenso, svolto in un caotico e slabbrato gusto espressivo soprattutto del macabro, del corrotto, del purulento[59]) riprendendone e accentuandone («losco duce» in «lercio duce», ad esempio) la violenza aggettivale che tornerà (mescolandosi con la piú dura violenza alfieriana, ma con maggiori vicinanze all’ascendenza varaniana) in certi passi delle canzoni rifiutate del ’19 (specie in quella Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo) e sin nella seconda sepolcrale del ’34 intorno alla identificazione del disfacimento corposo del cadavere («sozzo a vedere, abominoso, abbietto», «vista vituperosa e trista»).

Ma se nella cantica l’impronta piú forte è varaniana ed è base di una direzione di espressione che avrà i suoi momenti piú alti e leopardiani nell’assoluta squalifica del «secol tetro» e dell’«aer nefando» della canzone Alla sua donna (con una storia che qui non si può che accennare, e un corrispettivo interno legato a tutto il sentimento morale e polemico del Leopardi da riveder entro la sua storia intera e dinamica), l’incontro con il Monti ha esiti piú vari e lunghi che vanno anche al di là del giudizio critico sulla poesia del Monti, ramificandosi in direzioni, se si vuole, marginali o funzionali rispetto al filo piú interno della poesia leopardiana, ma non senza raccordi con tendenze della sua poetica e della sua elaborazione di linguaggio nel periodo fino al ’22, e con il ritorno di minori echi montiani fin nel Consalvo.

Ché infatti, mentre l’incidenza montiana ha un suo sviluppo nella direzione delle figurazioni rettoriche dell’Italia e del personaggio-vate nella canzone All’Italia, piú lunga è la presenza del Monti preromantico e wertheriano-ossianesco degli Sciolti al Chigi, dei Pensieri d’amore, della trasposizione wertheriana dell’Aristodemo, dei Pensieri di un cittadino solitario nonché di certo dialogare e narrare del Galeotto Manfredi e del Bardo della selva nera entro la tendenza elegiaca-amorosa leopardiana riconfluita, con nuovi elementi di poetica, appunto nel caso piuttosto particolare del Consalvo.

Sulla prima direzione la maniera montiana (del resto le due canzoni del ’18 furono non del tutto casualmente dedicate al Monti) si manifesta abbastanza largamente nella impostazione e nel gestire del personaggio-vate (Simonide e il bardo Ullino del Bardo della selva nera[60]) e nella iconografia opulenta dell’Italia «formosissima donna», del contrasto fra la sua grandezza passata e la miseria presente in cui si vedono vari echi delle numerose prosopopee montiane dell’Italia, nel Beneficio

(una donna di forme alte e divine...

la sinistra alla gota: e, scisso il manto,

scopria le piaghe dell’onesto petto[61]),

nella Musogonia

(Vedila, ahi lassa!, che di caldo rio

bagna la guancia vereconda e casta,

e nel seno t’addita augusto e pio

il solco ancor della vandalic’asta.

Assai pagò la dolorosa il fio

d’antiche colpe che l’han doma e guasta...[62]),

nel Bardo

(e tu d’ancella la farai reina...[63]),

nel Congresso di Udine

(Tu muta siedi...

Sí dimesso il volto

non porteresti e i piè dal ferro attriti...[64]),

nella Mascheroniana

(carca di ferri e lacerato il manto...

Tal che, guasta il bel corpo d’ogni parte...[65]).

E quanti avvii montiani nelle esclamazioni, nelle interrogazioni, nei particolari della costruzione rettorica delle due prime canzoni![66]

Sicché, a parte il rapporto con Petrarca, Chiabrera, Testi, Filicaia (in una tradizione di lirica eloquente culminante appunto nel Monti), l’impronta montiana è ben rilevante nella direzione altamente rettorica delle prime canzoni e il Monti portava anche l’eco incoraggiante, sulla linea classicistica a cui il Leopardi aderisce, di quel piú recente classicismo patriottico e nazionalista di cui il Monti era, a suo modo, rappresentante e collaboratore aulico (specie all’altezza della Mascheroniana, nelle sue impennate antifrancesi non in tutto discordi, a ben diverso livello, dalla polemica sulla Cisalpina dell’Ortis[67]) e cui egli aveva trovato le immagini piú floride e sontuose.

E tuttavia le canzoni patriottiche, sia ben chiaro, avevano in sé una tale carica disperata personale e attuale che lo strato montiano non ne costituisce che un elemento, piú rettorico e tecnico, legato all’impostazione di lirica alta ed eloquente di ripresa classica e appoggiata a idee giordaniane, mentre il loro fondo piú autentico e nuovo si lega piuttosto alla nuova lezione alfieriana e foscoliana, come il nazionalismo leopardiano era solo per un lato nazionalismo letterario, animato com’era da una morale coscienza di decadenza, dai sottesi schemi natura-ragione, antichi-moderni, e da una volontà di intervento che superava ogni possibile equivalenza montiana, e rispondeva piuttosto alla disperazione dell’Ortis, alla cui essenziale pagina, della lettera da Ventimiglia, il Leopardi si riferiva esplicitamente in una nota dello Zibaldone[68].

Piú sottile invece l’efficacia montiana elegiaca che pure non domina direttamente nessun momento della poetica leopardiana e porta la sua voce piú pastosa e piú ormai ottocentesca fra gli echi del Werther e rinnovate cadenze melodrammatiche metastasiane, rafforzate (in un impasto di eloquio poetico piú apertamente sentimentale e fra novellistico e melodrammatico) da certo piú teso patetismo alfieriano (le parti piú patetiche di Carlo e Isabella nel Filippo o della esuberante sentimentalità della Sofonisba o dell’affettuoso dell’Alceste) sia nel Sogno sia, piú tardi, nel Consalvo.

Chiara è in tal senso la presenza montiana appunto nel Sogno a cui il Monti con gli Sciolti al Chigi, i Pensieri d’amore e con certi recitativi dell’Aristodemo e del Galeotto Manfredi offriva, su certa base generale metastasiana, una piú moderna intonazione di melodia patetica (la sonorità montiana spinta sino alle soglie di una melodia del sentimento), un gusto di fluida espansione patetica su quella via preottocentesca di elegia e novella romantica (e si pensi in tal senso anche alle parti piú novellistiche del Bardo della selva nera) che soprattutto il Tommaseo[69] mise in luce nel Monti esagerandone il valore poetico e innovatore che tuttavia non si può del tutto negare (piú convenientemente riducendolo quanto a valore poetico in forme di abile mediazione di motivi preromantici e wertheriani sulla base di una disposizione poetico-affettuosa) come una delle forme di passaggio verso l’Ottocento nel recupero cauto e largo dell’opera mediatrice del Monti mal configurabile solo nell’unico modulo neoclassico e neoclassico-baroccheggiante[70].

Quella voce melodico-patetica (con possibilità di toni idillici-elegiaci sulla via del Sogno e in parte della Vita solitaria) poté contribuire a provvisorie soluzioni di canto affettuoso ed elegiaco piú ammorbidito nel complesso periodo del ’20-22 e non senza ritorni piú sbiaditi nelle Ricordanze (il cui andamento a onde di ricordo può far pensare al piú esterno e pur suggestivo e nuovo procedimento dei Pensieri d’amore), in certi passi dell’Aspasia e, soprattutto, nel Consalvo[71].

Ma, detto questo, sarà pur evidente che nella prospettiva piú profonda della poesia leopardiana l’esperienza montiana appare limitata, priva di un vero corrispettivo di piú interne consonanze di problemi spirituali, sentimentali, poetici, bloccata in velature piú superficiali e provvisorie di colore e melodia piú espansiva e sospirosa, nella direzione di quel parlato elegiaco e novellistico leopardiano che può pur distinguersi dal suo piú vero tono di colloquio, del «tu» lirico essenziale dei «grandi idilli» e degli ultimi canti: e non per nulla il ritorno montiano nel Consalvo coincide con un momento piú debole, febbrile, di fantasticheria piú che di vera poesia.

IV

Un incontro di ben diversa e decisiva importanza per tutta la personalità leopardiana, in un momento decisivo della sua formazione generale, è quello che ha luogo nel ’17, anno essenziale in cui il Leopardi, attraverso la conoscenza epistolare del Giordani (apertura ad una esperienza viva di persona viva, e viva piú di quanto comunemente si creda[72], ricca, entro certi limiti piú pedanteschi, di elementi moderni in senso culturale, etico-politico nella sua ansia di perfezione classica), l’esperienza del primo amore e, appunto, la scoperta intera dell’Alfieri[73], operò la sua piú vera «conversione» letteraria (ma anche etica e politica) e pose le basi essenziali del suo successivo svolgimento.

Incontro documentato anzitutto dal sonetto del 29 novembre 1817, Dopo letta la Vita dell’Alfieri, che esprime l’ansia e il dolore del giovane scrittore rispetto alla vita attiva e all’esperienza concreta dell’Alfieri: ansia di azione, di grandezza, di intervento, di poesia che si ripercuote profondamente nelle canzoni patriottiche e può esser còlta a nudo in quell’Argomento di elegia seconda del ’18 che è documento formidabile di ardenti, aggrovigliate tensioni e va messo in forte rilievo per intendere dall’interno questo momento e la vera natura delle stesse canzoni patriottiche: «Oggi finisco il ventesimo anno. Misero me che ho fatto? Ancora nessun fatto grande. Torpido giaccio fra le mura paterne... Che fai? pur sei grande. O patria, o patria mia ec. che farò non posso spargere il sangue per te che non esisti piú. ec. ec. ec. che farò di grande? come piacerò a te [donna], in che opera per chi per qual patria spanderò i sudori i dolori il sangue mio?»[74].

Ma documento piú ampio ne sono le stesse lettere del ’17-18 al Giordani, riboccanti di allusioni all’Alfieri, ai suoi «santi» detti e princípi, di alfieriano bisogno di gloria, di riprese di espressioni alfieriane nella direzione degli affetti ardenti e dell’amicizia («il pieno spargimento di cuore» leopardiano richiama la definizione alfieriana dell’amicizia «reciproco bisogno di sfogare il cuore»[75]) dello «sviscerato» amor di patria, dei «sublimissimi» affetti, di «caldissimi» e «ardentissimi» desideri, di «smania violentissima» di poesia, di «spasimare e disperare» «impazientissimamente», di espressioni alfieriane nella direzione del disgusto e del disprezzo morale fisicizzato («stomacato»)[76], di «orribili malinconie» o di designazioni alfieriane della propria disperazione[77]. E la stessa definizione di «conversione» è eco della «conversione» alfieriana.

E altro documento dell’efficacia dell’incontro alfieriano sono quelle Memorie del primo amore (o Diario d’amore) che nascono appunto sotto la suggestione alfieriana del bisogno di autoanalisi per meglio conoscer se stesso[78] e riprendono il modulo schematico del «primo amoruccio» della Vita estendendolo in una prosa analitica che si avvale di chiare indicazioni alfieriane (l’abbondanza di diminutivi autoironici e graduanti: «doloretto acerbo», «piaceruzzo», «nebbietta di malinconia», «favilluzza», «piaghetta amorosa mezzo saldata», in contrasto con espressioni superlative, estreme: «votissima giornata», «riarderanno violentissimamente», «scontentissimo e inquieto», «orecchio avidissimamente teso», «giorni smaniosissimi»; e con la fisicizzazione degli stati d’animo: «rintuzzato», «rannicchiato in me stesso»[79]) e raccoglie essenziali motivi alfieriani sui temi dell’amore incentivo indispensabile di opere e di grandezza e del rapporto amore-studi, amore-poesia, amore-azione, sull’analisi del sorgere e modificarsi dei sentimenti, sulla propria natura eroica e vocata alla grandezza e singolarità[80], e sulla via piú sottile del valore del ricordo nello scatto del suo risorgere improvviso e nella forza maggiore rispetto al sentimento presente[81], del rapporto fra musica e sentimento malinconico, che il Leopardi riprenderà nello Zibaldone secondo la precisa direzione alfieriana[82].

E dietro questi documenti piú espliciti di un preciso momento alfieriano (il Primo amore diluisce la forza dell’incontro in un impasto di toni ed echi letterari diversi e nella fallita ricerca di una prospettiva piú petrarchesca di distanza poetica), una minuta ricerca entro lo Zibaldone, le lettere, i Canti (qui esemplificata in forma essenziale) mostra la forte incidenza alfieriana (della Vita anzitutto, ma anche delle tragedie, delle rime, dei trattati etico-politici, delle satire) nella formazione e nello svolgimento leopardiano. Senza con ciò voler forzare il Leopardi in uno schema di rigida dipendenza alfieriana, senza negare affatto la fortissima originale differenza tra Leopardi ed Alfieri, segnata, in parte, dal noto pensiero dello Zibaldone[83], che indagando sugli uomini di singolare carattere rileva in vicinanza e differenza l’esemplarità di Alfieri tutto «natura» ripugnante ad ogni adattamento e conformismo, e quella di Rousseau nella sua maggior timidezza e debolezza (ma non è detto poi che Leopardi si identifichi senz’altro con Rousseau) e senza tacere il fatto che a volte l’influenza alfieriana, forte specie nella zona delle canzoni-odi, spinge il Leopardi a toni piú aspri ed atteggiati («e rifugio non resta / altro che il ferro») bisognosi come di una rettifica piú interna e di un consolidamento espressivo piú denso e musicale. Ché Leopardi ha una voce piú fusa (pur calcolando la misura altissima della Mirra) di quella alfieriana e nella stessa poesia eroica degli ultimi canti ha una fermezza piú semplice e schietta, un afflato lirico piú complesso, un livello storico-linguistico ben diverso, cosí come essa nasce da una problematica piú matura e da una personalità piú ricca e complessa, da un’esperienza intellettuale e culturale tanto piú vasta e profonda di quella un po’ rattratta e povera dell’Alfieri.

Ma, al fondo, e sulla base di partenza del ’17, c’è pure una congenialità (fra vera e desiderata) e un’attrazione potente degli elementi di eroismo, di coraggio, di incrollabile ispirazione morale dell’uomo-poeta[84] che fu maestro e «fratello maggiore» di Leopardi in quel periodo decisivo, quando tutte le forze del Leopardi cominciano a mettersi in movimento fra le prime riflessioni dello Zibaldone, l’autoanalisi delle Memorie, le canzoni patriottiche, le canzoni rifiutate del ’19, i primi idilli; e in quel folto intreccio il poeta mostrava la ricchezza delle sue tensioni, la loro interna correlazione, la loro radice di energia e il loro comune impianto morale ed attivo.

E già sullo scorcio del ’17 la lettura della Vita alfieriana offriva al Leopardi lo schema eroico del letterato moderno-uomo libero, a cui egli fu fedele sino alla morte[85], sollecitava la definitiva rottura non dell’alto senso rettorico-stilistico, rafforzato dalle discussioni col Giordani, ma di una concezione letteraria di origine umanistico-gesuitica, e della crosta reazionaria di origine monaldesca, liberando il senso della patria e della libertà dai margini stessi di una pur sua singolare speranza negli slogans della «restaurazione» fino allora resistenti, e insieme, piú in profondo, sollecitava un senso di delusione e scontentezza a vari livelli, da quello storico-attuale patriottico a quello esistenziale (si ripensi al trinomio di «sazietà, noia, dolore» della Vita[86]) e la tensione all’infinito che trovava appoggi alfieriani nello Zibaldone[87] e si alimentava delle sensazioni di silenzio e di immensità fermate dall’Alfieri in alcuni celebri passi della Vita. Come la pagina del viaggio in Svezia («un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuori del globo»[88]), o quella celebre di Marsiglia: «Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra... dove sedendomi su la rena con le spalle addossate ad uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e cosí fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell’onde, io mi passava un’ora di delizie fantasticando»[89].

E quest’ultimo passo, pur connesso con tante altre possibili sollecitazioni di altre letture fatte dal Leopardi in quegli stessi anni (come può essere il caso – oltre ad altri spunti dello Young già ricordati e di altri scrittori piú avanti citati – di certi slanci immaginosi e metafisici del Mazza[90]) dové agevolare, per analogia e per contrasto, l’idea del limite e dell’immensità durante la concezione dell’Infinito, specie se si pensa che nell’iniziale abbozzo o concetto di quel canto, il poeta esitò fra «apre» e «copre»: «oh quanto a me gioconda quanto cara fummi quest’erma (sponda) plaga (spiaggia) e questo roveto che all’occhio (apre) copre l’ultimo orizzonte»[91]. Mentre nel terzo concetto[92] c’è ancora la traccia di una visione fisica piú diretta dell’immensità: «lunge spingendosi l’occhio gli si apre dinanzi interminato spazio vasto orizzonte», accordata con il parziale limite del «verde lauro» che «gran parte copre dell’orizzonte allo sguardo mio», solo nel quarto argomento, già versificato e interrotto al «vo comparando», l’intuizione della doppia vista e del nesso limite-illimitato si consolida definitivamente e si sviluppa il rapporto sensazione-meditazione-presa di coscienza intuitiva del sentimento dell’infinito superando nettamente i margini piú edonistico-idillici pur presenti nel passo alfieriano e quelli teologici di uno Young o di un Mazza.

Né, ripeto, può trascurarsi la frequenza di presenze dirette o indirette dell’Alfieri nello Zibaldone: sol per ricordarne alcune, l’assimilazione dei martiri cristiani agli eroi antichi[93], chiaro riflesso di note affermazioni di Del principe e delle lettere; l’affermazione della propria ostilità all’affettazione[94] che ricorda, nella Vita alfieriana, l’antipatia per l’affettazione dei romanzi di Rousseau; l’elogio dell’eroica costanza[95] di evidente ascendenza alfieriana; le riflessioni sulla licenza della rivoluzione francese e i numerosi motivi misogallici con il connesso motivo alfieriano dell’odio per lo straniero necessario all’amor di patria[96]; le riflessioni sulla mancanza di arte critica in Italia appoggiata a un passo alfieriano[97]; quella sul rapporto fra amor proprio ed egoismo[98], sulla tirannia e sul rapporto tirannia-cristianesimo[99] (echi della Tirannide); la designazione del secolo impoetico[100] che richiama, con complesse diramazioni, il centro polemico del Parere sul Saul circa il secolo «tanto ragionatore e nulla poetico»; e le citazioni di giudizi alfieriani sulla Bibbia e Omero[101]; e i passi sul ritorno di una sensazione[102], quelli citati sulla velocità e l’infinito, sulla letteratura e la libertà. Il quale ultimo si collega alle troppo note allusioni ad Alfieri nell’Ottonieri e nel Parini[103], in anni ormai lontani dal piú diretto incontro alfieriano del ’17 e che confermano la persistenza della esemplarità alfieriana nella mente del Leopardi.

Ma, per stare alla poesia leopardiana, specie fra il ’18 e il ’22, nelle canzoni, nelle canzoni-odi e nelle parti piú tese dell’Inno ai Patriarchi, sarà anzitutto da rilevare la natura alfieriana di tanti accordi aggettivo-nome nelle poesie leopardiane di quell’epoca nelle due gamme (soprattutto nella seconda) di indicazioni di valori e disvalori opposte e divaricate all’esterno, alla cui radice è la ripresa leopardiana del contrasto eroico-pessimistico alfieriano in forme tanto piú complesse e articolate in schemi intellettuali potenti: natura-ragione, antichi-moderni, passato glorioso e presente scaduto e corrotto, illusioni-arido vero e, poi, uomo-natura malvagia, uomo consapevole della situazione umana e secolo frivolo e sciocco nello sviluppo piú tardo, ma non privo di coerenza in questa forma di energica appassionata contrapposizione. Sicché proprio ripresentando alla rinfusa espressioni leopardiane e alfieriane simili, mal si saprebbero distinguere le riprese dirette dalle alterazioni leopardiane: «memorando ardimento», «intatto costume», «generosi e santi detti degli avi», «ceneri sante», «santa fiamma di gioventú», «ozio turpe», «immondo livor privato e dei tiranni», «codarda etate», «obbriobriosa etate», «luttuosi tempi», «empio fato», «corrotto costume», «schiatta ignava», «voglie indegne», «vergognosa età», «imbelle prole», «abbietta gente», «perversa mente», «infausti giorni», «secol morto», ecc.

E al di là di queste espressioni c’è tutto un rinforzo di motivi leopardiani a base alfieriana (si pensi, nell’Ad Angelo Mai[104], all’elogio delle illusioni e, per Alfieri, alla Virtú sconosciuta o alla lettera alla Mocenni-Regoli sulla morte del Bianchi o ai versi della Congiura dei Pazzi: «dall’infame letargo in cui sepolti – tutti giacete, o neghittosi schiavi», per non dire della figura eroica dello stesso Alfieri riplasmata con una chiara mimesi di modi alfieriani e della figura di Dante eroe alfieriano «non domito nemico della fortuna») e una esperienza di linguaggio fortemente energico e sintetico (sino alla durezza e alla rigidità di certi apoftegmi alfieriani meno fusi nel linguaggio piú vario e denso del Leopardi) e di una energia intima, di una invincibile ansia morale ed eroica, di un anelito alla purezza e alla vita generosa che si traduce nelle due canzoni rifiutate del ’19 nel disprezzo del «mondo»[105], nell’orrore alfieriano-leopardiano per la vecchiaia, per la «nefanda vecchiezza», scuola di compromessi e viltà come già si configurava nel rapporto Guglielmo-Raimondo della Congiura dei Pazzi[106] (una delle tragedie alfieriane piú atte a rafforzare in Leopardi il nesso fra servire politico e sofferenza morale ed esistenziale). E se le due strofe alfieriane dell’Ad Angelo Mai e tutta la canzone alfieriana Nelle nozze della sorella Paolina (piena di riprese della Virginia, ma anche del Bruto primo e di Del principe e delle lettere) sono le punte piú aperte dell’alfierismo leopardiano, esse non possono essere isolate dalle sollecitazioni alfieriane dell’eroico disprezzo della vita nell’A un vincitor del pallone o dell’impostazione tragica dei personaggi nel Bruto minore e dei suoi nuclei educati dall’Alfieri da cui derivano insieme precise definizioni dello stesso personaggio («molle di fraterno sangue» come il Polinice della tragedia omonima): la decisione eroica del suicidio, l’accusa agli «inesorandi numi» e al «fato reo» (cui si contrappone la strenua e sfortunata guerra del «prode»), a Giove che indifferente colpisce i giusti e gli empi come il Geova saulliano che «nella sua ira / ravvolto... ha con l’innocente il reo». Cosí come la «tiranna destra» del fato esercitata sugli uomini «infermi schiavi di morte», non può non richiamare la «terribil destra» del Dio vendicativo del Saul. E lo stesso originalissimo Ultimo canto di Saffo (originalissimo e insieme cosí gremito di voci adiuvanti diverse, preromantiche e romantiche) ha non solo echi alfieriani particolari (i «disperati affetti» o, su altra direzione, echi della voce di Micol – «Vivi, vivi se il puoi» – o di Carlo del Filippo – «ogni mia cura asperge / di dolce oblio...» – o della voce di Mirra: «io disperatamente amo ed indarno»), ma lo stesso nucleo della donna, innocente vittima di un cielo crudele, richiama i noti versi della Mirra

(se forza di destino ed ira

di offesi numi a un lagrimar perenne

la condanna innocente...)

e riprospetta, a livello piú profondo, il problema del rapporto Alfieri-Leopardi in un diagramma vasto di posizioni centrali storiche e liriche.

Ché insomma, con un appoggio di temi laterali e un accordo sul fondo della sensibilità esistenziale (la noia, il vuoto della vita di tante rime e di tante lettere), nella denuncia e protesta leopardiana, già nelle forme del Bruto minore e dell’Ultimo canto di Saffo, rifluiva, trasvalorato personalmente e storicamente, il senso piú profondo della tragedia alfieriana, che era, a sua volta, la centrale intuizione tragica sollecitata dalla crisi dell’illuminismo nella nascita del romanticismo, non senza accordi con minori posizioni preromantiche anche se queste erano per lo piú involte in forme di idillismo e di piú blanda elegia, ma percorse da laceranti vibrazioni drammatiche[107].

Leopardi portava quell’intuizione tragica ad un significato di estrema risolutezza (superando dal centro i faticosi tentativi di accordo fra il suo «sistema» e il cristianesimo operati a lungo nello Zibaldone), la liberava dai pericoli di ripiegamento spiritualistico non mancanti nell’ultimo Alfieri (voltando insieme le spalle alle soluzioni positive foscoliane, ché Foscolo vale per Leopardi solo nello «zibaldone» drammatico dell’Ortis), la riviveva originalmente dall’interno di tutte le sue esperienze vitali, speculative, poetiche in una nuova dimensione e in un nuovo rapporto storico in cui egli diversamente da Alfieri (e con una diversa struttura intellettuale e culturale) avrebbe ripreso la lotta illuministica contro i miti portandola alla conclusione del messaggio consapevole e virile della Ginestra.

Anche al di là del periodo indicato si possono trovare tracce sparse della profonda lettura alfieriana. Se ne ritrovano nell’Epistola al Pepoli, in cui l’avvio («Questo affannoso e travagliato sonno – che noi vita nomiam») riprende un grande verso della Congiura dei Pazzi («in questa morte che nomiam noi vita»). Se ne ritrovano sparsamente in coincidenza con movimenti elegiaci intensi di cui pure era ricco l’Alfieri, nelle Ricordanze, in cui un movimento sintattico lirico, intorno al tema della giovinezza, richiama un passo dell’Alceste («tu l’alma sua / tu piú diletta a lui / piú assai; piú cara che i suoi figli / piú di se stessa cara») o, piú tardi, nell’elegiaco e febbrile Consalvo, dove si possono cogliere piú echi del Filippo, dell’Alceste, della Sofonisba (in coincidenza con l’elemento patetico-doloroso teso fino al piacere del martirio e al compiacimento della morte consolata dall’amore) o nella prima sepolcrale dove lo stimolo di tante rime alfieriane circa l’impossibilità di sopravvivere amando alla persona amata si realizza in uno dei piú lucidi e tesi sviluppi lirici dell’ultimo Leopardi in forma di piú decisa protesta. O in Amore e Morte in cui l’invocazione alla morte recupera un preciso appoggio alfieriano dalla tensione di Mirra verso la morte («O morte, o morte cui tanto invoco...») e l’erezione eroica del poeta: «erta la fronte, armato» può richiamare il «nuda la fronte e tutto il resto armato» del sonetto-testamento alfieriano («Uom di sensi e di cor libero nato») da cui ritornerà un’allusione profonda nella Ginestra. Ma certo la lezione alfieriana, di cui viveva ancora il fascino e la consonanza recuperata in momenti supremi, si era ormai risolta piú sicuramente entro la rinnovata prospettiva di persuasione eroica del Leopardi e anche certe forme, certo sollecitate dall’esperienza alfieriana, come il «fetido» (orgoglio) e il «vigliaccamente» che vengono dalle Satire[108], si sono fuse senza macchia entro l’energico, spregiudicato linguaggio dell’ultimo Leopardi.

V

Guardando ancora alla zona giovanile formativa, ben si possono notare presenze sollecitanti di altri poeti di secondo Settecento (oltre naturalmente agli echi classici italiani di secoli precedenti che qui non possono illustrarsi) che o confluiscono in precisi momenti e atteggiamenti ideativi e stilistici o spuntano piú casualmente dal complesso tormento della poetica leopardiana ricca di diverse tensioni: comunque, di fronte all’Alfieri, con tanto minor importanza e incidenza profonda.

È il caso del Parini, che, assunto poi come portavoce della caduta di un mito alfieriano, la gloria (ma non senza echi alfieriani del Dialogo della virtú sconosciuta e qua e là risentita attraverso una sorta di alfierizzamento – «fare e scrivere» – e rinforzata da tracce molto evidenti del Parini ortisiano), fu avvertito dal Leopardi soprattutto come quello di un uomo morale e di un artista piú che di un «poeta» (donde il suo giudizio critico tanto piú preciso e sicuro di quello sull’Alfieri[109]). E certo il Parini, che pur poté partecipare, in grado minore, alle auctoritates morali cui presiede l’Alfieri (e certo un gusto dell’espressione di temi morali fra diretti e satirici costituisce una gradazione minore dell’impulso morale-espressivo alfieriano[110]), meno poté offrire al Leopardi nella piú profonda formazione della sua poesia.

Si potrebbe in generale notare un certo strato di aura malinconica elegante, sviluppata dal rilievo stesso del Leopardi di una certa malinconia del Giorno[111], nella descrizione dell’ozio e del tedio del frivolo mondo aristocratico (si pensi ai versi 8-11 del Mattino:

come ingannar questi noiosi e lenti

giorni di vita, cui sí lungo tedio

e fastidio insoffribile accompagna,

or io ti insegnerò)

e nella celebre descrizione dell’apertura della Notte, di cui qualche suggestione può ricavarsi nella descrizione del cielo nel Canto notturno del pastore

(il debil raggio

de le stelle remote e de’ pianeti

che nel silenzio camminando vanno),

ma che è poi usufruita notoriamente nel brano lunare della Vita solitaria, dove la macchia pariniana è vistosissima e supplisce a un’evidente diminuzione e incertezza dell’ispirazione in un componimento che, malgrado il centro «idillico» piú vicino all’Infinito, si presenta come un intarsio di motivi poco fusi, piú letterariamente configurati entro una piú tradizionale temperie idillica.

E in genere, mi pare, la lezione pariniana si risolve soprattutto in una scuola di tecnica puntuale di movimenti aulico-realistici, di elegante concisione non senza frutti ulteriori nella generale formazione del linguaggio leopardiano (un tono piú elegante di fronte alla violenza e scabrezza alfieriana), che, però, nelle sue direttive fondamentali sfugge al preciso impulso pariniano classicistico-sensistico e neoclassico e cerca un vero piú denso e sentimentale, e porta anche nelle riprese pariniane (puntualmente abbondanti[112]) nei grandi idilli una diversa levitazione di «vago» e, negli ultimi canti, un’energia e un tono piú ottocentesco.

Cosí se nel Primo amore vi sono chiari imprestiti pariniani

(i destrier che dovean farmi deserto

battean le zampe sotto al patrio ostello...[113]

Quante volte plebea voce percosse

il dubitoso orecchio...),

e se in quella specie di lontano abbozzo di un passo della Quiete dopo la tempesta che apre lo Zibaldone

([...] s’udiva il carro

del passegger, che stritolando i sassi

mandiva un suon, cui precedea da lungi

il tintinnio de’ mobili sonagli)

chiara è la voce del Parini, nel passo della Quiete si assiste ad una intimizzazione e melodizzazione dei suoni e delle sensazioni e un gusto del reale-vago tanto spostati dalla base pariniana sí da renderla quasi irriconoscibile:

[...] odi lontano

tintinnio di sonagli; il carro stride

del passegger che il suo cammin ripiglia.

E se piú tardi certo tono di Alla musa si coglie nei versi iniziali dell’Epistola al Pepoli, che dal Parini deriva certo gusto satirico-elegante ripreso poi con maggiore espansione satirica nella Palinodia (piena di allusioni alla forma di epica parodistica del Giorno) e se, in Aspasia, la descrizione della «dotta allettatrice» nel quadro del suo appartamento non può non far ripensare al Parini[114], tutti questi e altri richiami precisi (come quello piú avanti notato nella seconda sepolcrale) evitano il «tour de force» pariniano e sfuggono alla nobile maestà della sua ultima poetica neoclassica per un fare piú sciolto e denso. Ché, del resto, conclusivamente, la saggezza stessa, il «medio tutissimus ibis» del Parini, il suo saldo cerchio piacere-virtú, natura-ragione, non potevano dir molto in profondo al Leopardi e i loro equivalenti stilistici per quanto immessi a volte come smorzatura piú pacata dei toni alfieriani sono in realtà superati da una radicale, maggiore energia (si pensi alla definizione del «fiero allobrogo» divenuto «allobrogo feroce» e al rapporto fra certi passi di sdegno umanitario del Mattino e certi passi dell’Inno ai patriarchi). E solo nella Ginestra, come dirò, una originale ripresa dell’ideale di consapevolezza della Caduta ritorna nel tanto piú teso equilibrio della ginestra e dell’uomo che essa simboleggia.

Alla fine si potrebbe dire che in un senso piú intimo, fra alimento di meditazione e poesia, piú si può guardare (nella direzione idillico-elegiaca e di temi leopardiani fra Zibaldone, Ad Angelo Mai e idilli, e per certe velature di colore poetico particolare) a un poeta tardosettecentesco come il Pindemonte, che pur tanto meno poté significare come magistero tecnico e morale.

Il Pindemonte delle Poesie campestri[115] anzitutto denuncia la sua sottile, ma sicura sollecitazione alla fantasia leopardiana in quella Vita solitaria già ricordata per innesti pariniani, ma certo da ricordare, su di un margine idillico piú settecentesco e vago, per gli echi pindemontiani: sia nella costruzione del componimento appoggiata al passaggio delle varie parti del giorno (Le quattro parti del giorno pindemontiane), sia nel gusto signorile della vita solitaria campestre, sia, alla fine del componimento (in cui il «vezzoso raggio» della luna si situa in un tipo di linguaggio preromantico idillico particolarmente pindemontiano) siglata da un elegante giro melodico-visivo che presenta in forma disgiuntiva due preromantiche situazioni lunari e non può non richiamare, con diversa capacità poetica, un tipico modulo pindemontiano:

o al lume tuo sereno

sieda l’estate, discoperta il seno,

o il verno assiderato

vada i tuoi rai cercando...[116]

E certo quel giro ondulato di prospettive vaghe di paesaggio sentimentale, che si ritrova con tanto maggiore eleganza perfetta e tensione intima nella grande canzone Alla sua donna (e si pensi, per questa, a certi colori pindemontiani piú diafani e tristi: «luce piú scarsa e mesta»[117]) pare saldarsi duttilmente a un gusto della frasepaesaggio che sale, entro il preromanticismo, alla sua piú gracile e aerea perfezione, nelle Poesie campestri, sottese da una lieve tensione contemplativo-meditativa e da una spiritualità sensibile e aristocratica, venata di elegia, che, nei suoi limiti e nella sua inclinazione piú dolce e tenue, poté pur offrire qualche suggestione ad un lettore come il Leopardi.

Si riconsiderino cosí, nella lettura leopardiana, certe velature paesistiche accompagnate da teneri elementi elegiaci

(Ma oimé che splende alquanto e piú non torna

il soave mattin di nostra vita:

splende e non torna piú quella, che infiora

gli anni primi dell’uom, sí dolce aurora.

D’alte speranze infiora e d’alte voglie,

d’aurati sogni e di felici inganni...[118]),

o in piú chiare forme di rêverie, questi addii al sole e alla gioventú

(Ma il dí, che or parte, riederà: quest’ossa

io piú non alzerò dal lor riposo;

né il prato e la gentil sua varia prole

rivedrò piú, né il dolce addio del sole[119])

o, nelle Epistole, questi delicati avvii di una figura lieta e danzante di fanciulla:

Pel sentier della vita il piè Clarina

move danzando: innanzi a lei stan sempre

alte su l’ale d’or lieti fantasmi

e tutte innanzi a lei ridon le cose.

Piagge abitate, aperti campi, siti

cerca lucenti...[120]

E, sempre dalla base della Vita solitaria, che segna il piú chiaro contatto del Leopardi con il piccolo poeta del «grave nuovo stil»[121], il rapporto con l’impostazione contemplativa-meditativa del Pindemonte

(sovra un torrente io siedo

talora e guardo, e le tante onde e tante

che a perder vansi in contemplar, le umane

parmi veder passar rapide vite[122])

si realizza in movimenti piú intimi, nella zona dei «grandi idilli», in consonanze di giri sintattico-musicali, entro l’andamento di epistola elegiaca delle Ricordanze o in certi precisi passi del Passero solitario:

[...] e quando chiusi

all’azzurro del ciel, de’ colli al verde,

e ai volti amici avrò per sempre gli occhi...

Versi tratti da quell’epistola Ad Apollo che trova chiare riprese nell’Epistola al Pepoli nella parte dedicata alla poesia e i cui motivi di rimpianto della poesia legata alla giovinezza del mondo e distrutta quando «l’uom; piú che non sente, pensa» quando «fantasia già infredda e s’inorgoglia / la ragion piú sempre», sembrano inserirsi già nella meditazione leopardiana fra il Discorso sopra la poesia romantica, l’Ad Angelo Mai e le prime parti dello Zibaldone.

E basti ricordare almeno in proposito brani come questi delle Prose campestri in direzione di precisi motivi del Discorso sopra la poesia romantica: l’elogio della vita campestre e pastorale edenica (che «ha sempre un non so che di tenero e commovente; risveglia in noi con le idee piú pure e aggradevoli certo senso soave di quell’età che si chiama dell’oro e ci fa risonar nell’animo qualche avanzo delle languide sí, ma inestinguibili voci della natura»[123]) o l’elogio della rimembranza e dei ricordi della prima età: «L’anima nostra, che rade volte del presente si appaga, volentieri o verso l’avvenire si innoltra col desiderio, o sovra il passato ritorna con la reminiscenza. Piú volentieri risale al passato e riproducendo in qualche maniera le cose, che piú a lei furono grate, queste in qualche maniera gusta di nuovo e rivive, per dir cosí, la migliore sua vita... Con piacer grande ricorre sempre ai giorni della prima mia giovinezza... Che tempi quelli non sono, quando tra per que’ primi bisogni d’un cuore vergine e pieno di vigore e di vita, e per l’inesperienza degli uomini, e la consolante fiducia che ne risulta, tu t’abbandoni subito ai tuoi sentimenti...»[124].

Mentre l’affermazione della superiorità dell’immaginazione sopra la nuda verità scientifica, con il lungo esempio del sole cadente (e l’inerente senso della caducità umana) ben si inserisce fra le sentenze dell’Ad Angelo Mai e le riflessioni zibaldonesche del ’19-21: «Non vorrei parere il panegirista dell’ignoranza: ma certa cosa è, che il diletto, che lo spettacolo generale della natura produce in noi, viene indebolito non poco dalla cognizione scientifica della stessa natura...»[125]. Naturalmente tutto è piú vago ed angusto nel Pindemonte, e nel Leopardi ogni intuizione fra riflessiva e poetica si appoggia ad una formidabile spinta interna alimentata anche da altre letture a livello piú profondo (Rousseau, Alfieri, il Foscolo dell’Ortis) in un intreccio di temi che formano l’ardente complessità dell’Ad Angelo Mai. Ma sul limite della sensibilità e della espressione letteraria un autore, a suo modo «poetico» come il Pindemonte, aveva pure un suo fascino particolare e una sua possibilità di presa, poteva entrare nella memoria leopardiana (fra agevolazione nel formarsi di certi temi e suggerimento di moduli letterari) in punti assai delicati e sensibili, come una delle punte piú avanzate e insieme eleganti di quel gusto e sentimento preromantico a cui il Leopardi fu cosí fortemente legato.

Come può ulteriormente verificarsi nel caso dell’Ossian.

VI

Infatti come negare l’importanza di questa lettura che, se ci rivela i suoi primi segni piú passivi entro la prevalente sollecitazione gessneriana, ci mostra poi tutta la sua forza fra la genesi dei primi «idilli» e l’Ultimo canto di Saffo riaffiorando, piú intimamente fusa nella ispirazione idillico-elegiaca leopardiana, nei canti pisano-recanatesi del ’28-30? Certo, parte della presenza ossianesca può confondersi con aspetti della topica preromantica e poi con elementi wertheriani e montiani di derivazione ossianesca, ma al centro di questo vasto alone ossianesco c’è un piú diretto rapporto del Leopardi con lo pseudo-Omero preromantico e con la versione cesarottiana (ripresa dal Leoni per i Nuovi canti di Ossian) sul cui grande valore mediatore ho a lungo insistito nel mio Preromanticismo italiano[126] già indicando il suo esito singolare nel Leopardi (pur nel largo arco di utilizzazioni ossianesco-cesarottiane fra Monti, Alfieri, Foscolo), il quale poi, secondo l’ipotesi del Maurer, avrebbe pensato il titolo stesso dei Canti in relazione ai Canti di Ossian e specie ai Canti di Selma.

Il fascino della poesia dello pseudo-bardo scozzese era naturalmente accresciuto per il giovane Leopardi dalla sua fede nell’autentica primitività dei canti di Ossian[127]. Ma egli che ne parlava già nella lettera alla «Biblioteca italiana» del 18 luglio 1816, come del testo straniero piú importante («nutriamoci d’Ossian e d’altri poeti settentrionali, e poi scriviamo se siam da tanto, come piú ci va a grado senza usare le loro immagini e le loro frasi»[128]), ne risentí solo parzialmente gli elementi piú propriamente epici, la tematica eroico-bellicosa, che ha pure qualche eco parziale nella canzone All’Italia[129], e che comunque si incentra piuttosto per lui nel gusto del pericolo, presente nella canzone A un vincitore nel giuoco del pallone e che rifluisce, con un’accentuazione tetro-voluttuosa, molto viva nell’Ossian, e in relazione con gli scenari tempestosi, di natura in tensione di ascendenza ossianesca (ormai piú che di ascendenza varaniano-montiana), nell’Ultimo canto di Saffo.

Per il tema del piacere del pericolo, dell’esaltazione vitale nel rischio, si ricordino, fra le molte frasi ossianesche, almeno le seguenti:

[...] ov’è periglio

non ha luogo tristezza...

nei perigli il mio cor cresce, e s’allegra...

ma nei perigli l’alma

brillami in petto...[130]

Per scene tempestose avvicinabili a quella dell’Ultimo canto di Saffo si rilegga almeno questa sequenza già da me rilevata nel mio Preromanticismo italiano:

Tempestosa notte,

notte atra: rotolavano le querce

dalle montagne; il mar infin dal fondo

rimescolato dal vento mugghiava

terribilmente, e l’onde accavallandosi

le nostre rupi ricopriano...[131]

Ma piú profonda è l’utilizzazione leopardiana delle sollecitazioni ossianesche sul tema e sul modulo grave-nostalgico dell’«ubi sunt?»

(Ma dove son gli amici? i valorosi

compagni del mio braccio entro i perigli?

Ove se’ tu Catbarre? ove quel nembo

in guerra Ducomano? e tu Fergusto?...[132]

Ove son ora, o Duci,

i Padri nostri, ove gli antichi Eroi?...[133]

Ove son ora, o vati,

i Duci antichi? ove i famosi Regi?

Già della gloria lor passaro i lampi.

Sconosciuti, obliati

giaccion coi nomi lor, coi fatti egregi...[134])

e, in generale, l’intima simpatia per l’onda malinconica dello sparire, del passare, del cadere, del perire e giacere, dell’inaridirsi e dell’appassire (verbi insistenti nell’Ossian) delle cose, e degli uomini còlti dalla morte nel pieno della vitalità della giovinezza e della bellezza.

E qui una nostra lettura dell’Ossian non può essere ormai piú separata dalla suggestione di immagini, miti, cadenze leopardiane, tanta è la forza con cui il Leopardi riprese dal testo ossianesco tanti avvii densi di elegia e di vibrazione sentimentale (al di là, o meglio al di qua, dell’amplificazione melodica e scenica del Monti, dell’aspra drammatizzazione alfieriana, della eloquente siglatura neoclassica del Foscolo) assecondandone, entro la sua energia luminosa di canto e visione intima, la ulteriore lievitazione lirica ed essenzializzandone la densità affettuosa e il risentimento esistenziale, verso quella voce del cuore e quel supremo incontro di mestizia e luminosità di elegia e di idillio che (sulla base delle voci italiane del Tasso, del Guarini, del Metastasio) sviluppava in modi nuovissimi e completava (cioè in realtà ricreava e creava) i moti teneri, nostalgici, dolenti e gioiosi: quei moti che nell’abilissima versione cesarottiana (e nella ripresa del Leoni) continuamente si fan luce dalla ganga piú farraginosa e monotona di vicende eroiche e infelici rievocate dal bardo cieco e che pur creano un’atmosfera generale di pessimismo esistenziale radicale e «senza filosofia» tanto piú suggestivo per il Leopardi in quanto egli la credeva voce istintiva e primitiva di una visione vitale precedente alla civiltà della ragione e del vero.

Una folla di echi sollecitanti, e dotati di una loro prima elaborazione espressiva (non bruto materiale prosastico o pura e semplice miniera di indicazioni tematiche) fermenta a lungo nella memoria e nella fantasia leopardiana, si assimila a moti centrali e spontanei della sua sensibilità idillico-elegiaca e al gusto delle sensazioni legate ad «affezioni», «situazioni», «avventure storiche del suo animo». Cosí, in rapporto col tema centrale dello sparire, dello svanire di persone (il centro dolente dell’inesausta tensione leopardiana al «tu» concreto), ma anche di cose, di tempi, di sensazioni, allusivo alla caducità di tutte le cose e centro di tanta musica lirica «idillica» leopardiana, sarà da sottolineare la presenza ossianesca di versi anzitutto espressivi del digradare e svanire di una sensazione (suono o visione) in coincidenza con la maggiore evidenza di tale motivo leopardiano nella Sera del dí di festa.

La direzione, diremo, non tanto della piú facile intermittenza dei suoni in lontananza

(E per lo cupo silenzio del Lena

s’udiano ad or ad or gemer da lungi

le fioche voci, e querule di morte[135]),

quanto proprio quella dello svanire progressivo e intimamente nostalgico:

luce che scema a poco a poco, e manca...[136]

gioia ride sul volto: ella somiglia

a pallido del Sole ultimo raggio,

che già tra’ nembi si frammischia, e perde...[137]

In sul mattino

infiochí la sua voce, e a poco a poco

s’andò spegnendo...[138]

Ed insensibilmente nell’orecchio

iva mancando il mormorio del Teuta...[139]

Intesi il lento degradar soave

del canto dilungantesi...[140]

Mentre (componendosi con i notati apporti gessneriani e pindemontiani) la stessa evocazione di paesaggi idillici nella dimensione della quiete e della distensione (sempre preparatoria o connessa, rispetto alla tensione elegiaca senza cui essa non avrebbe ragione d’esistere isolatamente nella poetica leopardiana) non manca di appoggi ossianeschi o diretti o ripresi attraverso l’ossianismo wertheriano e wertheriano-montiano (ma insomma l’Ossian è alla radice delle stesse diramazioni successive e a quella radice soprattutto il Leopardi ritorna).

Cosí, se la celebre apertura della Sera del dí di festa recupera, sulla base omerica, una vasta serie di echi wertheriani, gessneriani, montiani, ossianeschi[141], fra quell’inizio e celebri passi della Quiete dopo la tempesta si distende l’arco notevole, e qui sol rappresentato per esempi essenziali, dei moti idillici che nell’Ossian si svolgono intorno alle invocazioni della luna o del sole, che furono poi essenziale stimolo alla interrogazione leopardiana rivolta alla luna e alle stelle, fra Alla luna e il Canto notturno:

I tempestosi venti

di già son cheti e’l rapido torrente

s’ode soltanto strepitar da lungi...

... Addio, soave

tacito raggio...

Già tace il vento, ed il meriggio è cheto,

cessò la pioggia; diradate e sparse

erran le nubi, per le verdi cime

lucido in sua volubile carriera

si spazia il Sole, e già trascorre il rivo

rapido via per la sassosa valle...[142]

Ma ancor piú stringente intorno a temi leopardiani si fa la documentazione (non fontistica, ma di scelta e di assimilazione della poetica idillico-elegiaca leopardiana) di movimenti, di parole tematiche, di cadenze intorno al tema del ricordo o nella sua forma diretta di amara sproporzione col presente o in quella piú sottile e struggente di una gioia del ricordo doloroso. Ché l’Ossian offriva una vasta gamma di sfumature della memoria, della «ricordanza» e «rimembranza» (che alla fine era divenuta parola comune, ma ricca di suggestione; e sulla consunta formula della «rimembranza amara» del libretto del Da Ponte, Mozart costruí uno dei movimenti elegiaci piú intensi e puri del suo Don Giovanni): o con segno tutto negativo («rimembranza acerba», «ricordanza amara» ecc. ecc.) o in mescolanza diretta aggettivale, di dolcezza e amarezza («sarà memoria ancor dolce ed acerba»[143]) o in forma piú articolata

(A rimembranza di passate gioie,

ch’a un tempo all’alma è difettosa e trista...[144]

No, vaghe luci: voi nell’ombra siete;

ma obliarvi non so. Gioconda è sempre

la rimembranza, benché al pianto invogli...[145])

e assai vicina al piú complesso disegno psicologico del finale di Alla luna (specie nella redazione prima, senza l’inserzione del ’35)[146] che doveva pure il suo avvio ( «O graziosa luna») ad un accordo ossianesco[147] e conserva, nel suo insieme, una piú diretta vicinanza con forme settecentesche-ossianesche illimpidite, melodizzate, ma non totalmente superate come avviene nel tanto piú grande Infinito.

Soprattutto verso le Ricordanze (a cui l’Ossian offre l’avvio preciso – non Monti come di solito si dice – «vaga stella di Luta»[148]) e, in parte, verso A Silvia, la frammentaria (ma frammentariamente densa) pressione elegiaca ossianesca sembra essersi immessa nella superiore e ben diversamente organica e poetica tensione leopardiana. Con scambi e rafforzi del patetico metastasiano nel rilancio preromantico dell’affettuoso («gli innamorati sguardi», l’«amor mio dolce», il «mia lagrimata speme» in A Silvia) ma con una preminenza della presa ossianesca fra sensibilità ed espressione.

Nelle Ricordanze, prima intorno alla invocazione alla giovinezza «spenta» che annulla ogni speranza (lo «spento» è parola insistente nell’Ossian e giunge, carica di nostalgia, a sollecitare un modulo assai vicino a quello della giovinezza spenta: «e che temer poss’io se il mio Fingallo è spento?»[149]), poi intorno alle sequenze di Nerina, alla sua figura e al suo «passare» (o al «cadere» della speranza e al «giacere» di Silvia):

raggio di gioia risplendea sul volto...

brillai – qual raggio, e qual raggio passai...

nel fior di sua beltade...

e tu dovrai

cader nel fior di giovinezza estinto...

Ah tu cadesti,

speme di questo cor, cadesti...

Noi passerem qual sogno...

Cadesti...

ah tu cadesti

lasciando il campo disadorno e ignudo...

sparve il mio sogno, e la diletta immago...

Non ti vedrò piú mai?...

di te parola

piú non udrò?...

Dove dove se’ ita,

luce delle mie sale...

Ove se’ ita

nel fior di tua beltà, figlia di Nua,

vaga donzella da la nera chioma?

Ove ne andasti tu?...

Ove se’ ito mai

amor mio dolce?...

... o mia diletta speme.

Non piú sul prato

le lor’orme vedrò, non piú sul monte

udrò l’usata voce...

O padre ove se’ tu? piú non ti veggo...

Tu non risorgi piú; tu della festa

a parte non verrai...

già l’erba inaridita – la coprirà...

Or non piú il campo

ti rivedrà...

Son dispersi pei colli i duci nostri

né piú la voce di Fingano udranno...

A questi colli ignoto

sarai per sempre...

Tu non udrai la voce sua, né questi

risveglierassi di tua voce al suono...[150]

Fin troppo facile (e d’altra parte pur doveroso) osservare come la poesia dei grandi «idilli» elegiaci sia ben altra cosa, anche radicalmente, da questi lacerti e certo chi mi conosce non supporrà neppur lontanamente che io sia stato preso dal demone accademico della ricostruzione letteraria e a mosaico di una personalità poetica e delle sue opere. Voglio solo notare che le espressioni ossianesche citate non fanno mai macchia a sé nella poesia leopardiana, si son fuse dentro l’organico linguaggio «idillico»-elegiaco leopardiano come particolari di un’esperienza totale di cui la lettura ossianesca fu parte notevole, collaborazione di sensibilità, avvio di ritmo e di fantasia in una direzione che, nel suo insieme, mal si potrebbe immaginare senza la conoscenza dell’Ossian.

Al di là dei «grandi idilli», in cui si risolvono per la maggior parte gli stimoli preromantici ossianeschi, la presenza dell’Ossian è certo (malgrado la documentazione lessicale del Flora, specie dai Nuovi canti tradotti dal Leoni) meno interessante, anche se non ne mancano echi particolari negli ultimi canti, sia in qualche immagine ripresa nel ritmo piú scandito e incisivo della nuova poetica[151], sia piú centralmente in espressioni delle sepolcrali, come sul tema del «soggiorno» sotterraneo dei morti («ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno» e in Ossian «qui fia nel buio il mio soggiorno»[152]) sia, piú ampiamente, nel caso di parziale ritorno idillico del Tramonto della luna per il quale sarà possibile citare un lungo passo del Catula nella traduzione del Leoni:

Ancor sul cielo

chiaro vedrai sfolgoreggiare il sole,

e, al tremolar del mite raggio, il ramo

torneran liete a rivestir le foglie...

ma chi una volta nella tomba scese,

redir non puote per brillar di sole...[153]

VII

Particolare esame richiederebbero poi, nella considerazione della fase formativa del ’17-19, in complesso intreccio con elementi elegiaci, idillici, meditativo-lirici, morali, provenienti dalle letture già notate, le suggestioni dei romanzi di secondo Settecento, fino all’Ortis, che sfugge cronologicamente al nostro studio[154]: quelle del Werther, dei romanzi di Alessandro Verri, e ancora del Voyage du jeune Anacharsis del Barthélemy, dei racconti, romanzi e études del Saint-Pierre, e magari dei romanzi e racconti di Wieland, per non dir di Rousseau e del rousseauismo attinto anche attraverso tante altre opere che del suo concetto di natura si eran fatte portatrici[155], e di minori prodotti della narrativa e drammaturgia preromantica rappresentati nella biblioteca paterna.

E non tanto per individuare i tentativi del Leopardi «romanziere»[156], quanto per seguire la traccia offertaci da un importantissimo pensiero dello Zibaldone del 1818[157], che riporto anche come generale autenticazione da parte del Leopardi della legittimità e limiti di uno studio diretto a cogliere in tante sue letture le sollecitazioni ricavatene dallo scrittore nel chiarimento e nello sviluppo dei propri temi nascenti, della propria sensibilità in formazione; ferma restando, in consonanza alfieriana, la ripugnanza leopardiana di fronte al contagio di affettazione romanzesco-sentimentale e notata la sua preoccupazione orgogliosa di salvare ad ogni costo la originalità e schiettezza dei propri sentimenti. «A ogni modo mi sono avveduto che la lettura de’ libri non ha veramente prodotto in me né affetti o sentimenti che non avessi, né anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascere da sé: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare piú presto, in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch’io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella piú speditamente». E il pensiero si appoggia all’esempio del Werther che lo aveva aiutato a percorrere piú rapidamente la logica interna del sentimento disperato dell’amore.

Infatti, a parte l’esemplarità wertheriana per il pensato romanzo leopardiano, la lettura del Werther si intreccia a quella della Vita alfieriana e dell’Ortis nella formazione ed educazione dei sentimenti leopardiani dell’infinito, del contrasto illusioni-verità[158], e interferisce nella composizione delle elegie del ’17-18 (nel Primo amore la scena dell’attesa della partenza dell’amata può ben richiamare l’inizio della XXXVII lettera del Werther[159]) offrendo schemi e spunti di situazioni, intensificando l’impeto passionale e il desiderio della morte, che nella esasperata elegia seconda raggiunge il suo culmine accordato con la scena wertheriana-ortisiana della tempesta e con l’ignoranza serena della donna, desiderata intatta da tanto dolore. Intensificazione poi ripresa nell’agitato argomento di un’elegia[160] con l’immagine wertheriana della montagna percossa dalla tempesta. E nelle Memorie del primo amore elementi alfieriani trovano un concorso di elementi wertheriani (ad esempio, la noia dei libri durante l’amore come nella lettera XXXIII del Werther) e nel Sogno, sotto la velatura wertheriana-montiana sarà da ritrovare una piú diretta radice goethiana derivata dalla lettera XXXII, mentre nella Vita solitaria par ritornare qualcosa della contemplazione arida e indifferente della natura quale è prospettata nella lettera LXVI del Werther, tenendo conto anche del fatto che tali sollecitazioni ed offerte agivano contemporaneamente anche nel linguaggio elegiaco provenendo da un testo italiano assai efficace qual è la traduzione Salom posseduta dalla biblioteca paterna.

E mentre si potrebbe cercare con qualche maggiore sforzo la parte avuta da Bernardin de Saint-Pierre[161] o dal Barthélemy nella formazione di motivi leopardiani (la vita naturale fuori della civiltà, o nell’antichità classica), largo potrebbe essere il discorso sulla presenza attiva di Alessandro Verri che interferisce nelle meditazioni leopardiane sul passato, sul mondo antico, sul valore delle illusioni[162], e fu stimolo alla riflessione dello Zibaldone con le Notti romane e con le Avventure di Saffo, abbondantissimamente antologizzate nella Crestomazia della prosa.

Cosí dalle Notti romane (di cui lo Zibaldone rilevava l’interesse di invenzioni e di energia se non di stile[163]) saliva al Leopardi una folla di meditazioni eloquenti e tetre, di toni cupi e malinconici, di moduli di eloquenza enfaticamente meditativa e narrativa, sollecitanti, spesso in accordo e rinforzo di passi younghiani[164], la fantasia leopardiana verso il senso allibito e grandioso delle rovine e dell’oblio dei secoli («i secoli incalzano onda sopra onda, sommergono le umane grandezze e le spingono dentro gli abissi dell’oblivione. Su questa terra appaiono, e spariscono le generazioni come ombre fuggitive»[165]), verso l’immagine del mare del passato e della morte («senza fondo, e senza lidi, nel quale se tu spingi il pensiero vi si turba, e vi si stanca, vi si smarrisce»[166]), verso la condizione dei morti ripugnanti alla vita («niuna qualità nostra è simile, o proporzionata a questa della terra. Per voi il tempo, lo spazio, il moto sono il fondamento e la norma di ogni scienza, e per noi son qualità ripugnanti»[167]) che fa pensare a lontani stimoli al grande Coro dei morti.

Mentre all’origine dell’Ultimo canto di Saffo, come accennai io e svolse ampiamente Muscetta[168], si può raccogliere dalle verriane Avventure di Saffo un forte gruppo di spunti evidenziati dalla nuova vicenda leopardiana e impostati sul contrasto iniziale fra la «placida» natura e notte e la tensione infelice dell’avventura mortale di Saffo: «Placida è tutta la natura, tranquillo è il cielo... Sorgea la splendente luna e già apparve l’ampio di lei volto dietro le foglie di un denso albero... Ma se placida era la notte, ognor piú cresceva il tumulto nell’animo di Saffo... Io sola in mezzo della calma universale sono agitata da crudele tempesta...» (e Saffo è seduta «sul margine erboso»), «Tripudiano i garruli uccelli... il vento agitava le frondi degli alberi sulla cima de’ quali gorgogliavano gli augelli aspettando lieti la già vicina luce del sole... Spettacolo invero gratissimo per chi sorgendo dal soave sonno dia principio ai tranquilli uffici diurni; ma insipidi oggetti per un cuore trafitto da stimolo cosí pungente...», «Oh per certo Venere mi ha punita, perché troppo è manifesta la di lei ira in piaga cosí mortale!... Spiacevole arcano... o felice ignoranza, che non penetrando il futuro, gusta il presente... Non giova... né l’ingegno, né la giovinezza, allorché Amore con quel dardo, con cui ci ha trafitti, non percuote anche l’amato oggetto.

Irritabile dea distributrice arbitraria di angosce e di contenti... La dea si serve di te medesimo per esercitare incognite vendette... Bellissime sembianze... Nume crudele... potevi tu immaginare piú barbara discordia, che il negarmi gli allettamenti del volto, ed empirmi il cuore di cosí infruttuosi desideri... Invincibili brame... Sii pur felice nei tuoi amori... Si mesce ad ogni presente dolcezza, il dubbio che la fortuna cangi, l’immoderato desiderio di non probabili acquisti, il timore di mali corporei, gli affanni volontari dell’animo; e per fine il piú crudele persecutore d’ogni attuale godimento, il timido pensiero della morte... Tartaro caliginoso...»[169].

Certo tutto è ripreso con diversissima forza poetica e con un filo implacabile di denuncia e di protesta che nasce dall’intimo dell’esperienza leopardiana e si rafforza di schemi piú romantici e di colori ossianeschi e di profonde consonanze alfieriane, e si fa lirica compatta di fronte alla eloquenza verriana effusiva e svariante in riempitivi tardoarcadici e incerti impasti preromantico-neoclassici. Ma la forza di suggestione generale, l’incidenza di avvii di temi e moduli, la ricchezza del disegno psicologico sono indubbi entro la genesi complessa e laboriosa del canto leopardiano. E anche le Avventure di Saffo come le Notti romane appartengono a quel gruppo di romanzi che il Leopardi risentí come «Kurzweg» accelerante nello sgorgo dei suoi sentimenti e nella trama di una nuova rettorica sostanzialmente preromantica da cui è inseparabile la prima ganga dei suoi movimenti lirici nella loro torbida base, necessaria alla sofferta, lavorata purezza della sua originale espressione.

Romanzi[170] come scuola di vicenda, di psicologia, di avvio eloquente e insieme accrescimento di esperienza e di conoscenza dei propri sentimenti, materia viva di riflessioni sulla situazione umana, di «filosofia pratica» e «speculativa» inseparabili nel nesso moralistico del Leopardi aspirante a un suo singolare sistema, ma diffidente delle costruzioni sistematiche metafisiche[171].

Sí che, a proposito dei racconti e romanzi del Wieland, egli osservava che se ne ricavava piú «filosofia» che dalle opere filosofiche dell’abborrita speculazione tedesca: «Questo o quel romanzo di Wieland contiene un maggior numero di verità solide, o nuove, o nuovamente dedotte o nuovamente considerate, sviluppate ed espresse, anche di genere astratto, che non ne contiene la Critica della Ragione di Kant»[172].

Naturalmente anche per quel che riguarda la lirica, la letteratura in versi del secondo Settecento, il nostro studio potrebbe allargarsi ancor di piú sia tenendo presenti poeti preromantici certamente letti dal Leopardi anche nell’epoca formativa giovanile (il caso di Salomone Fiorentino e delle sue elegie poi antologizzate nella Crestomazia poetica[173]) sia studiando le offerte (fra recupero di precedenti letture e nuove letture piú vaste) proprio della Crestomazia poetica che potrebbero servire nei confronti della zona dei «grandi idilli» e di quella dei nuovi canti dopo il ’30.

Ci limiteremo però a qualche rilievo generale resistendo alla tentazione di recuperi troppo minuti e non superiori a coincidenze di lessico assai discutibili o magari suscettibili della critica ironica sui commentatori fontisti che il Leopardi riportava da un testo secondosettecentesco, il Cicerone del Passeroni, da lui antologizzato in relazione a un certo gusto moralistico-discorsivo che spiega tanta parte della sua vasta antologia secondosettecentesca in rapporto a quella inclinazione gnomica che può cogliersi nelle pieghe degli stessi «grandi idilli» e dell’ultima fase, fra polemica, ironia, moralismo dei Pensieri (e ricordando la prospettiva educativa delle Crestomazie):

Metton costoro in vista tutti i detti

che ’l loro autore ha tolti da’ piú degni

scrittori, e sallo il ciel se gli ha mai letti,

che s’incontrano spesso i begli ingegni[174].

Anche se, in verità, certi elementi lessicali reperibili nella Crestomazia sfuggono alla critica del Passeroni a causa della scelta dei brani fattane dal Leopardi.

Comunque in generale mi pare che, tratti i casi piú importanti da noi studiati, nei confronti dei «grandi idilli» (e specie del Sabato e della Quiete), quella poesia svariante fra idillio tardoarcadico e preromantico-neoclassico e gnomica favolistica, canzonettismo e discorsività moralistica, abbia (piú che la diretta esperienza arcadica[175]) fruttato in Leopardi nei toni del particolare realistico-idillico (la donzelletta, il garzoncello scherzoso, il mazzolin di rose e di viole), nel suo gusto elegante-familiare, e nel movimento di canto riflessivo (e non perciò davvero intrusione intellettualistica) che in tanta lirica tardosettecentesca (anche in zone neoclassiche meno tese o marmoree, piú discorsive e idillico-realistiche, fra Cerretti, Bondi, Cassoli) trova espressione timida e sempre sfiorante un certo che di piú avvizzito e cartaceo. Con qualche recupero di ritmo piú vivace e rapido che ha la sua prima base in quel Risorgimento di impianto metastasiano, ma poi, a ben guardare, pur legato a ritmi piú tardi (il Parini del Brindisi) e ad un linguaggio piú nuovo anche nella ripresa di certe forme pariniane-savioliane («l’ignuda destra porgi...», «candida mano»), specie nella strofa ottava, mentre la settima fa ripensare a qualcosa di pindemontiano, vittorelliano, bertoliano[176].

Mentre echi gessneriani e ossianeschi ritornano, alleggeriti attraverso questa lezione piú elegante (e a parte gli echi piú diretti e profondi già notati nelle Ricordanze e in A Silvia), sin nel Tramonto della luna.

VIII

Nell’ultimo periodo della poesia leopardiana il caso del Tramonto della luna è singolare (anche se non del tutto slegato da certi caratteri piú incisivi della nuova poetica ritrovabili, ad esempio, nella lucida implacabile diagnosi della vecchiaia che recupera un recitativo del Demofoonte metastasiano[177] con una maggiore forza di denuncia e di disegno energico lontano ormai dalla nitidezza piú melodica dei «grandi idilli» anche nelle loro parti piú «sentenziose») e addirittura può sembrare che il poeta, riportato alla tendenza idillica anche dalle correzioni alla edizione Starita (che sono prova, se ne occorresse, dell’altezza di gusto dell’ultimo Leopardi) finisse per forzare la linea media del linguaggio idillico fra una maggiore energia e minor dolcezza di canto, e viceversa tentasse una ripresa piú diretta di toni e lessico tardosettecenteschi, con ritorni ossianeschi, gessneriani, pindemontiani. Come nel primo quadro lunare con quelle «campagne inargentate» e quel «zeffiro» che «aleggia» e con l’«imbruna» e poi, nel quadro fra il ritorno dell’«inargentare» («inargentava della notte il velo») e quel rifluire della luce del sole che richiamano appunto toni e lessico preromantico e preromantico-classicistico e portano con sé un che di piú disegnato e di lievemente pittoresco[178] sulla base di una ispirazione piú gracile e meno sicura, nella deviazione dalla spinta piú autentica della nuova poetica, pur risentendo di certa maggior lucidità di disegno e di certo paesaggismo piú diffuso e pittoresco proprio di tanti quadretti dei Paralipomeni.

In complesso l’ultimo periodo della produzione leopardiana, quello da me studiato nella Nuova poetica leopardiana, piú difficilmente si presta ad una ricerca di premimenti scelte e riprese letterarie da qualsiasi zona compatta senza correre il rischio di cadere nella puntualità di singole espressioni lessicali e particolari poco significativi per la storia di poetica che siam venuti frammentariamente indicando sin qui.

Certo la stessa nuova lettura delle poesie e prose italiane fatta per l’apprestamento delle due Crestomazie non rimase senza eco nell’operare leopardiano (e già nei «grandi idilli», come ho già detto, echi della gnomica settecentesca soccorrono bene il bisogno leopardiano di movimenti fra amari e sorridenti soprattutto nei due corollari della sua filosofia del piacere che sono il Sabato e la Quiete) e perciò anche negli ultimi canti dopo il ’30 echi letterari vari si possono ben cogliere (Petrarca, petrarchisti, Collenuccio, madrigalisti cinque-secenteschi, poeti illuministici e preromantici) anche perché la nuova poetica, pur nella sua costruzione nuovissima non dissolve l’impegno letterario piú profondo del Leopardi, il suo bisogno di lavoro entro la tradizione e il corpo della letteratura[179].

Ma l’impeto nuovo della poesia della passione presente e della persuasione eroico-pessimistica riduce d’assai l’evidenza delle scelte letterarie. E forse l’offerta piú rilevante della letteratura all’ultimo Leopardi rimane quella della letteratura latamente illuministica in rapporto alla tendenza satirico-polemica che corre dalla Palinodia ai Paralipomeni per risolversi liricamente nella Ginestra: offerta in genere assai strumentale, ma non senza una ragione di consonanza nella lotta antispiritualistica e antimistica del Leopardi, nel suo piú forte ritorno all’illuminismo e quindi anche alla sua letteratura, in rapporto a quella volontà di poesia filosofica e moralistica che guida tante scelte delle Crestomazie e che nel ’28-29 si era affacciata nei disegni letterari, come nell’intenzione di scrivere poesie e odi filosofiche (come Collins, Pope, Akenside), sermoni (alla Gozzi) e persino scherzi filosofici «al modo del De Rossi»[180] e che ora poteva farsi luce di nuovo come via parziale di un impegno didascalico-satirico che il poeta avrebbe riassorbito e sollevato in lirica nella grande poesia della Ginestra.

Accennai già a certo generale parinismo piú ottocentesco nella Palinodia[181]; e nei Paralipomeni, a parte la precisa ripresa pariniana all’inizio, nella satira della fuga dei papalini e del generale Colli[182], prevale chiaramente una falsariga costruttiva e particolare costituita dagli Animali parlanti del Casti: falsariga di costruzione generale e di generale allegoria (uomini-animali, arricchita, rispetto alla Batracomiomachia, dalla consonanza col Casti[183] nella satira della superbia umana): falsariga di episodi e di particolari satirici numerosissimi[184], ma anche esempio dell’alternarsi di scene e quadretti paesistici e di riflessioni e sentenze morali e attuali, fra satira e diretta presa di posizione polemica e affermativa[185], ed anche (nel diversissimo livello di impegno, di obbiettivi polemici fra il «libro terribile» del Leopardi e la satira del Casti antitirannica, anticortigiana, anticlericale e antidemagogica nei limiti di una posizione sostanzialmente illuministico-riformistica) un minimo di rapporto fra le posizioni del Leopardi di fronte al nuovo spiritualismo, alla frivolezza di idee, costume, vita degli italiani (ma con dietro la terribile polemica antimetafisica e antitrascendente[186]) e l’atteggiamento di coraggio e di sfida del satirico illuministico nell’irrisione dei miti e della superbia umana[187] conclusa poi da lui positivamente nel solito nesso ottimistico di ragione-natura-virtú. Nella scelta del Casti ad appoggio dei Paralipomeni c’era dunque anche un riflesso della piú decisa simpatia leopardiana per certo tipo di poetica satirica illuministica e tardosettecentesca (si pensi del resto all’abbondanza di scelta, nella Crestomazia poetica, in questa direzione, anche là dove i riflessi illuministici son piú deboli e prevale il buon senso e un gusto riflessivo e moralistico di costume che magari si rivolge contro la divulgazione illuministica piú frivola e assimilabile alla frivolezza giornalistica di un Ottocento legato al mito delle «magnifiche sorti e progressive») per il corrispettivo di intelligenza anticonformistica e di impegno di battaglia per la diffusione della verità.

Atteggiamento che il Leopardi portava ad altezza di tono lirico, a suo modo romanticissimo e, se si vuole, singolarmente religioso (una volta tolta a questa parola ogni aspetto di scusa per l’ateo Leopardi), nella Ginestra, nuovissima e originalissima per costruzione, per slancio sinfonico, per alta spregiudicatezza di ogni forma esteriore di décor e di nitore classicistico, nuovissima per le punte scabre e risentite del suo linguaggio, per le forme delle sue strofe allungate e fuori di ogni misura tradizionale[188], per le sue immagini cupe e prive di ogni lucidatura classicistica, ma, a ben guardare, tutt’altro che priva di raccordi letterari, seppure risentiti da un’altezza personale suprema e per lo piú utilizzati violentemente, gettati a piene mani nel magma ardente di un’ispirazione arditissima, non ripresi in forma di intarsio o di assimilazione mellificante e d’altra parte sottesi da una tale unitaria spinta interna e creativa che non fanno mai macchia, ripresi come sono da una zona abbastanza omogenea come base piú bassa dell’atteggiamento polemico-satirico della grande lirica che lo promuove e lo investe internamente.

Né si tratta solo di elementi della poesia italiana, ma di un vasto rifluire di echi della poesia e della letteratura settecentesca europea: fra poesia delle rovine provocate dal tempo e dalla natura, poesia descrittiva piú inerente al tema vesuviano, poesia dell’infinità dei mondi e della piccolezza umana[189].

Su di una lata base lucreziana, materialistica ed atea[190], rilanciata settecentescamente dalla traduzione del Marchetti (su cui il Leopardi appoggiava una ripresa della missione lucreziana di poesia-verità e di battaglia antimitica, e l’ideale del «saggio» riportato al livello dei «philosophes»[191] e al suo personale impegno annunciatore – donde la citazione giovannea posta ad epigrafe della Ginestra[192]), si avverte, leggendo sotto i versi della poesia leopardiana, tutto un vasto premere di motivi filosofico-eloquenti, di descrizioni cupe, di lamenti pessimistici, di brani satirico-polemici còlti dal poeta nelle loro punte piú decise, slegati da ogni contesto descrittivo e ottimistico-edonistico, nel loro lato nesso di poesia-verità, poesia-battaglia e riportati entro un nuovo impeto illuministico-romantico di persuasione personale che vive come sentimento lirico e domina tutto il vasto materiale adoperato e rifuso in un ritmo audace e terribile, in una voce umanissima, pietosa e spietata nel suo messaggio poetico di verità e di fondazione civile.

Non solo il ritorno potenziato di Young nel brano dell’infinità dei mondi e della terra come un «punto», ma echi di Fontenelle[193], di D’Holbach[194], di Voltaire[195]. E ancora echi del Casti già notati, e, sul tema delle rovine e dell’eruzione vesuviana, echi piú diretti del Bettinelli[196] del Castel[197], e, piú indiretti (nella stessa antologia che conteneva il brano del Castel), del Delille[198], del Legouvé[199], del Delavigne[200], dello Chênedollé[201] e soprattutto del Volney[202]. E ancora passi del Mascheroni[203], su su fino a qualche eco dei Sepolcri foscoliani[204].

Gran parte della letteratura illuministica e preromantica sembra qui confluire nelle sue punte pessimistiche e dolorose, disilluse ed attive, ma tutto è, come dicevo, scagliato nel magma ardente dell’ispirazione leopardiana assorbito con forma spregiudicata, con minore elaborazione puntuale, dato che l’impegno centrale è volto alla costruzione, all’impeto parabolico e sinfonico, alla forza impressa a tutto il vasto materiale utilizzato.

Sulla base della ferma persuasione del valore di verità decisiva del pensiero illuministico-materialistico, dei «saggi» del Settecento maturo, si fondono gli echi illuministici e preromantici perdendo i margini deistici e ottimistici, descrittivi-edonistici, idillici, entro una formidabile tensione illuministico-romantica di poesia-verità, di poesia fondatrice di civiltà.

Al culmine di questa tensione il mito supremo della ginestra[205], della ginestra solitaria, suprema assimilazione, nel «tu» appassionato e fraterno, dell’uomo consapevole e sventurato a tutti gli esseri creati e distrutti dalla natura e, prima, la figura piú diretta dell’uomo leopardiano, saggio, e, piú che saggio, coraggioso e chiaro fino all’estremo, in cui, su di una comune base di dignità e di coraggio, sembrano echeggiare due voci della poesia italiana dell’ultimo Settecento: il Parini della Caduta («né s’abbassa per duolo / né s’alza per orgoglio»), l’Alfieri del sonetto già usufruito in una prospettiva piú ribelle nel finale di Amore e Morte («Uom di sensi e di cor libero nato») trasposto nella piú complessa e profonda immagine leopardiana: «Uom di povero stato e membra inferme / che sia dell’alma generoso ed alto...».

Quasi un richiamo di due toni morali e poetici della zona piú vicina agli ideali leopardiani (fra saggezza ed eroica persuasione), di due maestri della moralità italiana, in un momento in cui la poesia leopardiana non si fa, come troppo a lungo si è detto, moralistica, didascalica, ragionativa, ma in cui l’unione intima fra poesia ed eticità, fra poesia e verità personalmente posseduta e liricamente espressa, per immagini e ritmo, giunge, nella poetica leopardiana, al suo impegno piú deciso e rivoluzionario.

Con quella profonda moralità (Leopardi è la piú grande coscienza morale del nostro Ottocento), con quel coraggio e quel rigore intellettuale che sono inseparabili dalla poesia leopardiana e ne sorreggono anche le immagini piú «vaghe» e i miti poetici piú liberi e puri.

Perché, creatore supremo di miti poetici, Leopardi è insieme (non malgrado, ma in forza di ciò) il piú risoluto nostro poeta moderno nella lotta contro ogni mito ed inganno retorico ed evasivo, contro ogni tentazione edonistica, contro ogni compiacimento formalistico, il piú strenuamente responsabile della propria parola poetica, delle sue interne ragioni morali fino alla suprema assolutezza dello stile, e, nella stessa corrispondenza fra coscienza morale e coscienza artistica, ancora ci insegna che se coraggio, vigore intellettuale, coscienza morale non fanno di per sé poesia, la grande poesia non sorge che sul coraggio della verità, sulla intera partecipazione alla storia degli uomini, e su di una grande coscienza morale.


1 Circa la mia maniera di utilizzazione storico-critica di ricerche apparentemente «fontistiche» rimando all’esempio del mio saggio Il Socrate delirante del Wieland e l’Ortis (in «Rassegna della letteratura italiana», 3, 1959, e poi in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 19672) e alle considerazioni in proposito nella Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 19726, pp. 118-121.

2 E se dal Cinquecento erano esclusi i grandi poemi cavallereschi, dal secondo Settecento erano pure escluse le tragedie dell’Alfieri, il Giorno del Parini, le commedie del Goldoni.

3 Crestomazia italiana poetica, a cura di G. Savoca, Torino, 1968, p. 4. Cfr. anche Tutte le op. cit., I, p. 992.

4 Si pensi del resto, per questa citazione, al pensiero del 9 settembre 1823 (Tutte le op. cit., II, p. 846): «Molti presenti italiani che ripongono tutto il pregio della poesia, anzi tutta la poesia nello stile, e disprezzano affatto, anzi neppur concepiscono, la novità de’ pensieri, delle immagini, de’ sentimenti; e non avendo né pensieri, né immagini, né sentimenti, tuttavia per riguardo del loro stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici: questi tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si dicesse, non solamente che chi non è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che lo negherebbero schiettamente o implicitamente; ma che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può né possedere un buono stile poetico, né tenerne l’arte, né eseguirlo, né giudicarlo nelle opere proprie né nelle altrui...». Anche se poi questo pensiero viene controbilanciato (non negato) da tanti altri pensieri sulla decisività dello stile che presuppone però sempre il nesso «cose»-stile.

5 Rimando al mio saggio citato Poetica, critica e storia letteraria (1960, 1963).

6 Malgrado i passi giustificativi del Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, e l’uso particolare in Alla primavera o delle favole antiche, si ricordi quanto dice piú tardi il Leopardi in un pensiero del 19 settembre 1823 (Tutte le op. cit., II, p. 864): «Veramente pare che i nostri poeti, usando le antiche favole (come già i piú antichi italiani e forestieri scrivendo in latino) affettino di non essere italiani, ma forestieri, non moderni ma antichi, e se ne pregino, e che questo sia il debito della nostra poesia e letteratura, non esser né moderna né nostra, ma antica ed altrui. Affettazione e finzione barbara, ripugnante alla ragione, e colla qual macchia una poesia non è vera poesia, una letteratura non è vera letteratura».

7 Rimando in proposito al mio Preromanticismo italiano, Napoli, E.S.I., 1947, 19592.

8 Circa l’attività filologica (che continua e si sviluppa ben oltre quel primo periodo) mi sembra di grande importanza, entro la prospettiva nuova di un Leopardi piú attivo e «attuale» storicamente, il libro di S. Timpanaro jr., La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze, 1955, che assicura l’autenticità e la validità della forza filologica leopardiana al di là del suo semplice valore di noviziato poetico. Il recupero di autentiche forze e «presenze». leopardiane (filologia, pensiero-moralità) arricchisce giustamente l’immagine intera del Leopardi e la complessità umana, culturale e storica della sua grande poesia.

9 Certo ci vuol poco a trovare un accento «agonistico» nelle varie Morte di Saulle, Morte di Ettore, Morte di Catone astrattamente considerate o, piú suggestivamente, in certi passi del Pompeo in Egitto (cfr. Tutte le op. cit., I, pp. 548-551) pieni di ingenuo entusiasmo eroico e magnanimo. Ma si tratta ancora (a non voler forzare i tempi e anticipare l’entrata in azione di vere forze leopardiane) di un entusiasmo scolastico a base nettamente metastasiana e «gesuitica», di quell’eroismo che pare (pur risentito in un eccezionale ingenuo fervore piú puro) atto piú a sviare che a sollecitare il vero gusto di intervento e di partecipazione in prima persona che sarà poi proprio del Leopardi e si farà ben diversamente serio in relazione alle prime prese di coscienza della propria situazione, del proprio bisogno di rovesciare e rompere questa e la situazione italiana, e in relazione alla ben diversa lezione alfieriana: di quell’Alfieri che cosí bene aveva colto la falsità dell’eroismo metastasiano i cui «sensi feroci» eran diluiti in versi blandi «sí che l’alma li bee e par che dorma» (Satira IX). Qualche debolissimo avvio alfieriano («cada il tiranno – o liberi moriam», op. cit., I, pp. 554-555) o l’«udisti amico?» (p. 553), che potrebbe far pensare al Filippo, son troppo impastati nell’eloquio metastasiano, ridisteso in versi sciolti di tipo granelliano e bettinelliano, per assumere l’interesse di una vera lettura alfieriana, anzi possono indicare come un’eventuale lettura alfieriana non avesse nessuna capacità di rivelare al giovanetto la propria novità e la propria inconciliabilità con l’intonazione e la stessa tecnica drammatica di tutta la puerile tragedia.

10 Cosí l’esito dei primi studi «filosofici» è l’adesione al credo cattolico-conservatore di Monaldo (i versi del 1810, Tutte le op. cit., I, p. 524) che piú tardi si alimenta di piú chiare consonanze con posizioni della Restaurazione e si screzia di punte illuministiche e di reazioni allo stesso illuminismo che cominciano a denotare un movimento personale del giovane scrittore già superiore al cerchio statico della cultura monaldesca. Al di là della fase «puerile» ogni accostamento eccessivo di Giacomo a Monaldo, ogni tentativo di conciliazione fra i due e ogni recupero di somiglianze, mi sembra profondamente errato e sofistico e si può cadere nell’errore crociano di avvertire nelle Operette morali un pessimismo retrivo e monaldesco che distrugge alla radice tutta la potente novità e attualità delle posizioni leopardiane. E anche qui mi richiamo ad una immagine di Leopardi piú storica e attiva quale mi pare risulti da certe mie posizioni generali già nella Nuova poetica leopardiana cit., dalle posizioni molto sollecitanti e almeno parzialmente accettabili del Luporini (Leopardi progressivo in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, 1947), dalle stesse indicazioni generali del libro citato del Timpanaro, nonché dal conveniente sviluppo di temi desanctisiani, russiani (si pensi all’esame russiano dell’Orazione agli italiani del 1815), salvatorelliani.

11 F. Algarotti, Newtonianismo per le dame, Napoli (Milano), 1737 p. 15. La lettura del Newtonianismo (insieme al Dialogo sopra il lusso del Roberti) è ricordata dal Leopardi nella ripresa dello schema dialogico all’inizio del Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato «Analisi delle idee ad uso della gioventú» (Tutte le op. cit., I, p. 573) che è pure uno scritto, di questo periodo, di qualche interesse per il contatto con idee illuministiche e sensistiche (combattute, ma attraenti) del giovane cattolico illuminato. Tutta la posizione della iniziale cultura del Leopardi andrà meglio precisata alla luce di una considerazione piú attenta degli scritti di questi anni 1813-15 (troppo finora visti o come trascurabile erudizione o come segni di vocazioni e anticipazioni poetiche) in relazione con le letture illuministiche e antiilluministiche fatte nella biblioteca paterna, ricca di testi illuministici e ricchissima di opere e opuscoli antiilluministici, antirivoluzionari e della «restaurazione». Dall’Algarotti può derivare la critica a Descartes che è fatta alla luce non di dottrine cattoliche, ma della teoria newtoniana.

12 Tutte le op. cit., I, p. 631.

13 Tutte le op. cit., I, pp. 729-730, 731-732, 735 che pur derivano da passi younghiani.

14 Come propose il Russo nella sua Carriera poetica di G. Leopardi, in Ritratti e disegni storici, serie I, Dall’Alfieri al Leopardi, 19532, pp. 229-353.

15 L’immagine del granello di sabbia era anche nel Newtonianismo, ed. cit., p. 112 (poté passare nello Young data la diffusione europea di quell’opera algarottiana).

16 G. Negri, Divagazioni leopardiane, Pavia, 1894-99, vol. VI (O. Young e G. Leopardi), p. 159 ss.

17 Nella Biblioteca Leopardi (Catalogo contenuto in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province delle Marche», IV, 1899) si trovano le versioni del Bottoni (in versi, Siena, 1775) e del Loschi (in prosa, Venezia, 1786). Sulle versioni younghiane rimando al mio Preromanticismo italiano cit., pp. 141-149.

18 Notti, trad. Loschi, III, pp. 81-82.

19 Notti cit., III, p. 38.

20 Notti cit., III, p. 49.

21 Notti cit., I, p. 8.

22 Notti cit., I, pp. 64-65; I, pp. 152-153.

23 La parola su cui interverrà il rinforzo della squalifica varaniana e alfieriana (e il raccordo con la prima intuizione negativa da parte di Cristo); cfr. Tutte le op. cit., II, p. 61.

24 Notti cit., I, p. 17.

25 Notti cit., I, p. 172.

26 Notti cit., II, p. 172.

27 Notti cit., III, pp. 232-233.

28 Notti cit., I, p. 138.

29 Notti cit., II, pp. 22-23.

30 Notti cit., I, p. 22.

31 Notti cit., I, pp. 97-98.

32 Notti cit., II, p. 59 ss.

33 Si veda a p. 784, a p. 805, a p. 816 (Tutte le op. cit., I).

34 Elementi percepibili anche nei Discorsi sacri del 1814 (ad es. a p. 751 del I vol. di Tutte le op. cit.).

35 Tutte le op. cit., I, p. 789.

36 Tutte le op. cit., I, p. 794.

37 L’uso poetico di questo vagheggiamento degli errori antichi sarà esplicito solo nella canzone Ad Angelo Mai e il gusto idillico assumerà la sua funzione e il suo rapporto con «situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo» solo nei primi idilli nel ’19.

38 E l’idillio settimo degli Idilli scelti tradotti dal Soave (editi, insieme al Primo navigatore tradotto dal Perini, ad Osimo, 1791, l’edizione posseduta dalla Biblioteca Leopardiana, insieme alle Opere del Gessner tradotte dal Treccani, Como, 1817, posteriori dunque a questa fase). Il brano citato (con le figure della lucertola, della cicala ecc. che ritornano nel brano leopardiano) è a pp. 95-96.

39 Sul valore del Pagnini traduttore neoclassico rimando al mio studio omonimo pubblicato in «La rassegna della letteratura italiana», 1, 1953 (ora nel volume Classicismo e neoclassicismo nello letteratura del Settecento cit.). E si vedano anche le pagine del Fubini (Introduzione ai Lirici del Settecento, Milano-Napoli, 1959) che accettano e rafforzano la mia interpretazione in senso prefoscoliano.

40 Tutte le op. cit., I, p. 414.

41 Teocrito, Mosco, Bione, ecc., volgarizzati da Eritisco Pilenejo (il Pagnini), Parma, 1780, II, p. 11.

42 Teocrito, Mosco, Bione cit., II, pp. 40-41.

43 Tutte le op. cit., I, p. 417.

44 Tutte le op. cit., I, p. 938, dove il brano è lievemente modificato e, per un verso, riportato alla traduzione del Pagnini, come per maggior volontà di sobrietà e fedeltà.

45 Tutte le op. cit., II, pp. 611-612.

46 Op. cit., p. 106.

47 I nuovi idillj di Gessner, trad. dal Soave, Piacenza, 1790, p. 22.

48 I nuovi idillj cit., p. 25.

49 I nuovi idillj cit., p. 26.

50 Op. cit., p. 125.

51 Op. cit., p. 88.

52 Il primo navigatore (ed. cit., p. 3).

53 Il primo navigatore (ed. cit., pp. 41-42).

54 Il primo navigatore (ed. cit., p. 7).

55 Tutte le op. cit., I, p. 330.

56 Tutte le op. cit., I, p. 71.

57 Si veda in proposito il mio saggio Poetica e poesia nel Settecento italiano, in «La rassegna della letteratura italiana», 2, 1962 (ora in L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963, 19682).

58 Si veda in proposito L. Fontana, Monti, in Classici italiani nella storia della critica, a c. di W. Binni, Firenze, 1955, II, e C. Muscetta, Monti, in Ritratti e letture, Milano, 1961

59 La presenza del Varano meriterebbe, ben al di là di questo accenno, un lungo e particolare studio, per la singolare attrazione che il Leopardi provò per questo scrittore, specie nella propria formazione non solo letteraria, ma etica e sentimentale sicché egli volle poi – con un’implicita valorizzazione poetica critica e autobiografica – dargli un posto di eccezionale importanza nella Crestomazia poetica riportandone – anche con tagli estremamente personalmente sintomatici – una massa ingente di brani (pieni di spunti di temi, di moduli di immagine e sentimenti, di elementi linguistici) e confermando la sua simpatia per uno scrittore cosí, a suo modo, «nuovo» entro il pieno del Settecento (si vedano in proposito le mie pagine a lui dedicate nel mio Preromanticismo italiano cit., che mi sembrano ricevere una riprova da questa forte valutazione leopardiana di una personalità tale da costituire per lui una speciale fonte di preromanticismo indigeno, di fonte ed appoggio del suo particolarissimo romanticismo fin entro gli ultimi canti e nella stessa Ginestra pur cosí ideologicamente contrastante con la direzione ideologica varaniana) con un esplicito e importante riferimento nello Zibaldone (1 dicembre 1828, Tutte le op. cit., II, p. 1196) come esempio della libertà e spregiudicatezza particolare dell’«uomo nato nobile» come si vede, fra l’altro, «nello stile originale, nel modo individuale di pensare e di poetare, nel tuono ardito e sicuro, nella stessa fermezza e forza di opinione religiosa e superstiziosa del Varano». Tutte parole meditabili per la valutazione alta dell’originalità varaniana e per lo stesso riferimento alla propria origine nobiliare commutata non in senso di privilegio sociale, ma in forza di coraggio spregiudicato e di originalità individuale da mettere al servizio della causa della verità utile e anzi necessaria, indispensabile a tutti gli uomini senza ulteriori cesure di condizione e di privilegio sociale nella costruzione solidale di una nuova, umana società.

60 «Sopra una vetta... salia tutto raccolto in suo pensiero / l’irto poeta» (Bardo, I, vv. 16-20).

61 Beneficio, vv. 1, 8-9.

62 Musogonia, I, str. 70.

63 Bardo della selva nera, VI, str. 23.

64 Per il congresso di Udine, vv. 9, 13-14.

65 Mascheroniana, II, v. 129 e IV, v. 54.

66 «Tal d’armi e di nitriti e di timballi», «di barbarico sangue», «che cor fu il vostro», «fa’ cor», «Taccio il nembo di duol», «noi t’avevam tradita» (Mascheroniana, passim); «Chi di voi m’aita» (Il Beneficio); «venian siccome a nuzial carola / i valorosi», «A me l’armi, su via, l’armi», «alla terra natia», «Ma senza memorar l’alta vendetta» (Bardo, passim), ecc., ecc. E per Primo amore «le care mura del paterno ostello» (Mascheroniana). Ma le citazioni sarebbero ben piú numerose a rivelare l’impronta montiana nel tessuto rettorico e nei particolari lessicali del primo Leopardi.

67 La Mascheroniana specialmente fu fonte di patriottismo (anche se molto in chiave «moderata» e legalitaria) e rinforzo nuovo dei motivi antifrancesi prima in chiave antirivoluzionaria (Basvilliana), ora in chiave nazionale. Per questo aspetto del Monti non posso, per ora, rimandare che a un corso di dispense del 1955-56 all’Università di Genova.

68 Tutte le op. cit., II, p. 39. La canzone All’Italia sembra una risposta, un tentativo disperato di opporre se stesso alla situazione decaduta dell’Italia e alla domanda «Ove sono i tuoi figli?» che poi echeggiava anche nel Bardo montiano («Ove sono i miei figli?»), c. VI, str. 35.

69 N. Tommaseo, Monti, in Dizionario estetico, Milano, 1840.

70 Cosí, a parte il gusto satirico-comico della bella versione della Pucelle, si pensi a certe riprese di canzonettismo savioliano con una accentuazione di humour e di ricchezza da pianoforte piú che da clavicembalo. Anche le esperienze metriche del Monti (l’accordo settenario-endecasillabo di Per l’onomastico della sua donna) poterono esser componente della nuova metrica leopardiana.

71 A parte la piú vicina documentazione del Sogno, della Vita solitaria e del Consalvo (per cui rimando al commento dello Straccali e alle pagine di G. Natali, Viaggio col Leopardi nell’Italia letteraria, Milano, 1943), gli Sciolti al Chigi, i Pensieri d’amore, i recitativi dell’Aristodemo e del Galeotto Manfredi (come indicò generalmente il Flora nel suo commento), parti del Bardo (e delle giovanili Elegie) potrebbero citarsi come generale sollecitazione al tono elegiaco-novellistico e elegiaco-idillico notato. Perché meno noti cito alcuni passi delle tragedie: «È vero; / tutti siamo infelici. Altro di bene / non abbiam che la morte» (Aristodemo, III, 7a); «Allor che tutte / dormon le cose, ed io sol veglio e siedo / al chiaror fioco di notturno lune» (Aristodemo, III, 7a); «L’ultima volta che ti veggo è questa: / l’ultima volta» (Galeotto Manfredi, II, 3a ); «Elisa è morta nel suo cor» (Manfredi, III 4a). Per Aspasia può citarsi non solo il sonetto Sopra se stesso («Poi su l’abisso dell’oblio m’assido; / e al solversi che fa nel nulla eterno / tutto il fasto mortal, guardo e sorrido»), ma i versi dell’Aristodemo: «parlo a un guerrier, che questi dei, quest’ombre / dell’umano timor, guarda e sorride» (II, 7a).

72 Si legga, per una prospettiva nuova sul Giordani, il saggio di S. Timpanaro Le idee del Giordani, «Società», 1954 seppure troppo generoso. Per la finezza e il leopardismo del Giordani rimando anche alle mie osservazioni nell’antologia Scrittori d’Italia, III, Firenze, 1946.

73 Sui rapporti Alfieri-Leopardi si vedano almeno G. G. Ferrero, Alfierismo leopardiano, «Giornale storico della letteratura italiana», 1937; M. Fubini, Alfieri nell’Ottocento, «Il veltro», 1961, ora in Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani, Firenze 1963, 19672, p. 179 ss.; e le raccolte di «fonti» del Negri, Divagazioni leopardiane cit., IV (Reminiscenze alfieriane), p. 161 ss.

74 Tutte le op. cit., I, pp. 330-31. Nel testo ne ho riportato i passi piú sintomatici.

75 Cfr. Vita, I, p. 204. Per le citazioni precedenti e seguenti vedi Tutte le op. cit., I, pp. 1024, 1026, 1027, 1040, 1048, 1062, 1082.

76 Cfr. Vita, I, p. 281 e Tutte le op. cit., I, p. 1019.

77 È il passo della Vita (I, p. 56) da confrontare con la lettera al Giordani del 19 novembre 1819 (Tutte le op. cit., I, p. 1089): «E stava cosí delle ore intere, con gli occhi conficcati in terra, pregni di pianto, senza fare mai lasciar uscire una lagrima», «Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere».

78 «Chiudo oggi queste ciarle che ho fatte con me stesso per isfogo del cuor mio e perché mi servissero a conoscere me medesimo e le passioni» (Tutte le op. cit., I, p. 357). E si pensi all’introduzione della Vita alfieriana in cui l’autore parla di opera «dettata dal cuore» e dall’impegno di esaminarsi e conoscersi bene (Vita, ed. Fassò, Asti, 1951, I, pp. 6-7).

79 Memorie cit., passim (Tutte le op. cit., I, pp. 353-359). Per la scuola alfieriana di fisicizzazione di stati d’animo e di situazioni sentimentali e spirituali si pensi almeno alla «mente appassita» di Saul e, per lo sviluppo piú intenso e profondo del Leopardi, si pensi a certe lettere del ’19-20 («stecchito e inaridito», 6 marzo 1820 al Giordani, «anima assiderata e abbrividita», 17 dicembre 1819 al Giordani).

80 Memorie cit., p. 359 («il cuor mio... mi farà fare e scrivere qualche cosa che la memoria n’abbia a durare»: il corsivo è mio), p. 354 («pensieri, a petto ai quali ogni cosa mi par feccia e molte ne disprezzo che prima non disprezzavo»), p. 355 («mi pare che i pensieri mi sieno piuttosto ingranditi, e l’animo fatto piú alto e nobile dell’usato»), p. 355 («vedendomi anche l’animo piú alto, e non curante delle cose mondane e delle opinioni e dei disprezzi altrui»), p. 359 («me ne compiaccio, rallegrandomi di sentire qualcheduno di quegli affetti senza i quali non si può esser grande»). E si pensi al «primo amoruccio» alfieriano, prova al poeta di appartenere «a quei soli pochissimi» cui «è concesso l’uscir dalla schiera volgare in tutte le umane arti» (Vita cit., I, p. 59) e la descrizione degli effetti stimolanti dell’amore olandese (Vita cit., I, p. 89).

81 Tutte le op. cit., pp. 356-357, 358 (e per l’Alfieri si ricordino i noti episodi infantili dell’intermittenza del cuore e del ritorno del ricordo sullo spunto di un minimo segno del passato).

82 Tutte le op. cit., p. 357 («non è dubbio che la musica, s’io ne sentissi in questi giorni, mi farebbe dare in ismanie e in furori, e ch’io n’impazzirei dagli affetti»). Per Alfieri si ricordi la descrizione degli effetti della prima opera buffa ascoltata (Vita cit., I, p. 42 e poi a p. 70). Nello Zibaldone si ricordi il pensiero alfieriano del 29-30 agosto 1823, Tutte le op. cit., II, pp. 827-828 «qualunque musica generalmente, anche non di rado le allegre, sogliono ispirare e muovere una malinconia».

83 Lo spunto è in un pensiero del ’16 (Tutte le op. cit., II, pp. 26-27), lo svolgimento pieno è nel noto pensiero del 18 agosto 1823 (Tutte le op. cit., II, pp. 796-799).

84 Poeta, anche se a un certo punto il Leopardi parve accettare il giudizio staëliano, e latamente romantico, dell’Alfieri piú filosofo che poeta (Tutte le op. cit., II, p. 216 e poi p. 1221 circa il «but politique» dell’Alfieri). Ma occorrerebbe poi ricordare vari pensieri sull’unione di filosofia e poesia e comunque il pensiero del 30 maggio 1822 (Tutte le op. cit., II, p. 633) in cui si afferma che «nessun uomo fu né sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare piú e piú gran cose degli altri» e si ricorda l’Alfieri, il quale «perciò fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo».

85 Poesia originale e libertà sono per Leopardi indissolubili e nel pensiero dell’8 dicembre 1820 (Tutte le op. cit., II, p. 146) egli conclude una rapida diagnosi della decadenza della letteratura italiana in chiave di perdita di libertà con la citazione dell’eccezione di Alfieri, eccezione «dovuta al suo spirito libero, e contrario a quello del tempo, e alla natura de’ governi sotto cui visse».

86 Vita cit., I, p. 70. Tutta la Vita e le rime riboccano di questi temi anche leopardiani, per non ricordare poi il dialogo Della virtú sconosciuta e le lettere (su cui v. il mio saggio in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, 19693; e, per le rime, l’altro mio saggio in «La rassegna della letteratura italiana», 1, 1961). Questi ed altri studi alfieriani sono ora in Saggi alfieriani, Firenze 1969. Nell’essenziale scelta della Crestomazia poetica il Leopardi riportò significativamente sonetti del letterato-eroe e i due sonetti malinconici Sperar, temere, rimembrar, dolersi, e Solo fra i mesti miei pensieri in riva. Sull’interesse etico dei giudizi alfieriani del Leopardi si veda G. I. Lopriore, Giacomo Leopardi storico della letteratura italiana, Lucca 1958, pp. 60-61.

87 Si veda nello Zibaldone il pensiero del 27 ottobre 1821 (Tutte le op. cit., II, p. 537) che collega al tema dell’infinito la «velocità de’ cavalli» (e cita la Vita) come destante «realmente» «una quasi idea dell’infinito».

88 Vita cit., I, p. 103.

89 Vita cit., I, p. 81.

90 Le poesie del Mazza (utilizzate piú tardi per le traduzioni dall’Akenside – «donde quel manto che l’abbella e veste» per l’Ultimo canto di Saffo – e da Parnell) mancano nella biblioteca paterna, ma mi par dubbio che il Leopardi non conoscesse già negli anni giovanili certe immagini eroiche della battaglia di Maratona e della fuga di Serse («il Tiranno di Persia oppresso e domo / fra la vergogna e il disperar fremea; / e di tua lancia al paventato lampo / cadde vilmente», Opere, Parma, 1816, IV, p. 45) e certi versi sugli «interminati aerei campi» (III, p. 104) o certi sonetti sull’eternità culminanti in questi versi: «D’affetti intanto e di pensieri ondeggio / in uno quasi mar che cela il lito, / e nulla fuor che vision non veggio. / Quando il confin cui circoscrisse il dito / de l’Eterno, m’arresta; e qui vagheggio / in caligin l’idea dell’Infinito» (II, p. 104 e v. anche il sonetto nel I, p. 43).

91 Tutte le op. cit., I, p. 73.

92 Il secondo concetto («concetto dell’idillio secondo alla natura») svolgeva la prima idea dell’infinito in una direzione contorta di domanda alla «solinga sponda» del perché essa gli furasse «la vista / dell’incantevole e magico effetto / che Natura concede alle creature» e di domanda alla natura sulla sua spietatezza nei confronti del poeta. Quando stesi questo saggio non era ancora uscito l’articolo di S. Timpanaro, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1966, che dimostrava il «falso» (ad opera dell’editore Cozza-Luzi in Appunti leopardiani del 1898) di questi abbozzi e di altri scritti attribuiti al Leopardi. Preferisco tuttavia conservare questa parte del mio discorso sia perché permane in me qualche dubbio sulla dimostrazione interna del falso (quale intenzione apologetico-cattolica poteva avere il Cozza-Luzi nel caso preciso di questi abbozzi?) sia perché comunque deve pur ammettersi che, anche se falsa, quella del Cozza-Luzi è pur un’intelligente interpretazione del possibile iter leopardiano nella formazione dell’Infinito e (a parte scorie di linguaggio che può apparire ben poco leopardiano: ma si pensi alle incertezze linguistiche delle due canzoni rifiutate pure del ’19) quasi divinazione assai sconcertante di iniziali dubbi e incertezze del poeta (specie sul punto delicatissimo del rapporto fra l’ostacolo e la visione diretta o parziale o stimolata, dentro il pensiero, proprio dall’ostacolo), riscontrabili anche nelle definizioni zibaldonesche dell’infinito e pertinenti alla ripresa e poi al capovolgimento degli stimoli letterari risentiti dal Leopardi, come appunto soprattutto quello alfieriano citato.

93 Tutte le op. cit., II, p. 31.

94 Tutte le op. cit., II, pp. 7, 11-12. Già nelle Memorie (I, p. 359) c’era un attacco alla «romanzeria» chiaramente alfieriano.

95 Tutte le op. cit., II, pp. 52, 173.

96 Tutte le op. cit., II, pp. 62, 78, 106, 136, 162, 176, 252, ecc. Solo nei pensieri del 23 maggio 1821 e del 6 gennaio 1822 (Tutte le op. cit., II, pp. 313, 604-5) il Leopardi vide una positività della rivoluzione francese come ritorno alla natura e inizio di un «debole» risorgimento europeo.

97 Tutte le op. cit., II, p. 251.

98 Tutte le op. cit., II, pp. 210, 277-278.

99 Tutte le op. cit., II, p. 106.

100 Tutte le op. cit., II, p. 1227.

101 Tutte le op. cit., II, p. 299.

102 Tutte le op. cit., II, p. 416 , che si appoggia esplicitamente a passi della Vita.

103 Nell’Ottonieri l’Alfieri non è nominato, ma egli è chiaramente presente (sulla base del pensiero dello Zibaldone su Alfieri e Rousseau) come esempio di individui di natura «tutta forte e gagliarda» ecc.

104 Nell’Ad Angelo Mai la figura dell’Alfieri è portata al massimo della sua esemplarità di letterato-eroe, anche se essa provoca in Leopardi un fecondissimo dubbio sulla intera validità della poesia come arma di lotta («almen si dia questa misera guerra alle ire inferme del mondo»): dubbio piú vicino alla concezione alfieriana nella Tirannide (poesia surrogato dell’azione dove questa è impossibile) che non a quella in Del principe e delle lettere (poesia come un piú rispetto all’azione, ché il poeta è eroe e rappresentatore di eroi).

105 «Quest’empio, traditor, mendace / mondo, che i vizi apertamente onora» del sonetto LXI della prima parte delle Rime.

106 La tragedia si apre con versi che esprimono potentemente il dolore alfieriano del «soffrire» consigliato dalla prudenza senile («soffrire, ognor soffrire? altro consiglio – darmi, o padre, non sai?» I, 1a ) e tutta la tragedia nella vita di Raimondo, è in rapporto alla «gelida vecchiezza» («Quanto in servir fa dotto / la gelida vecchiezza! / Ah! se null’altro / che tremare, obbedir, soffrir, tacersi, / col piú viver s’impara, acerba morte, / pria che apparar arte sí infame, io scelgo», I, 2a) che è ripresa dal Leopardi nella canzone del ’19, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, nell’accusa alla «nefanda vecchiezza» che rende «abbietto ed empio» sí che è preferibile morir giovane ed innocente. I versi citati nel testo sono nella scena 2a dell’atto III.

107 Per il rapporto Alfieri-preromanticismo rimando al mio lontano volume Vita interiore dell’Alfieri, Bologna 1942, e al capitolo sull’Alfieri nel mio Preromanticismo italiano. E per le punte estreme dell’intuizione tragica alfieriana rimando alla mia Lettura della Mirra (in Carducci e altri saggi, Torino, 1960, 19723) e alla Lettura del Saul nella miscellanea in onore di F. Flora (Mondadori, Milano, 1963). Anche questi studi sono nel citato volume dei Saggi alfieriani.

108 Per il «fetido» si ricordi già nella Vita la «fetida e morta Italia» (p. 265) e nelle Satire, la VII, v. 54. Per il «vigliaccamente», che il Russo trovava senza precedenti nella poesia italiana (v. commento ai Canti cit., p. 379), si veda la Satira VII, v. 185. Per tutto il lessico leopardiano ho molte schede alfieriane utilizzabili ulteriormente in una apposita ricerca su Alfieri e Leopardi.

109 Tutte le op. cit., II, pp. 216, 307, 612 («piuttosto letterato di finissimo giudizio che poeta»; «non aveva bastante forza di passione e sentimento, per esser vero poeta»; suoi «veri sforzi e stenti nella lirica» ecc.). Per le citazioni del Mattino ci si serve dell’edizione 1763.

110 «Ozio vile» (La Magistratura, v. 48), «il folle / secol» (La Gratitudine, vv. 209-210), «vile / volgo maligno» (Alla Musa, vv. 99-100), «bamboleggia il mondo» (Mattino, v. 1053).

111 Zibaldone, Tutte le op. cit., II, p. 612.

112 Cito almeno i «leggiadri studi» (nel Mattino, v. 604 e in senso ironico), il «godi, Vicenza mia» (La Magistratura, v. 181), «l’odorato grembo» (Meriggio, v. 998), ecc.

113 «La ferrata zampa / de’ superbi corsier» (Mattino, vv. 930-931). Per altre citazioni v. G. Natali, Viaggio col Leopardi nell’Italia letteraria cit., pp. 197-203.

114 Si pensi ai «dotti fianchi», alla «novella Aspasia», alle «tiepide pelli», ecc. (Vespro, v. 274; Mattino, v. 628; Mattino, v. 259). Altro discorso sarebbe da fare per la metrica delle odi «oraziane» e del Risorgimento che riprende il metro del Brindisi pariniano.

115 Si veda in proposito M. Cerini, G. Leopardi e I. Pindemonte, in «La Rassegna», 2-3, 1926, che parte però da un’immagine troppo sfiduciata del Pindemonte e dalla ricerca assurda (e quindi conclusa negativamente) di una congenialità di profondità e di grandezza poetica.

116 È nel finale di Alla luna (cito da I. P., Le poesie originali, a c. di A. Torri, Firenze 1858).

117 È nella strofa ottava di Alla luna.

118 Il Mattino.

119 La Sera.

120 Epistola a Isabella Teotochi Albrizzi.

121 Rimando per una caratterizzazione del Pindemonte al mio Preromanticismo italiano cit., pp. 279-303, e anche alla mia scelta (per accenni alle Prose campestri) nell’antologia Scrittori d’Italia cit.

122 Epistola al Bertola.

123 Prose e poesie campestri, Verona 1817, p. 30. Cfr. Tutte le op. cit., I, pp. 919-920.

124 Prose e poesie campestri cit., pp. 14-17.

125 Prose e poesie campestri cit., p. 35.

126 Dopo i primi, esagerati rilievi del Thovez, le mie indicazioni hanno indotto K. Maurer (Leopardi’s Canti und die Auflösung der lyrischen Genera, Frankfurt am Main, 1957) a sottolineare di nuovo l’importanza della lettura ossianesca anche dal punto di vista della struttura lirica leopardiana.

127 Mi par dubbio quanto osserva il Muscetta circa un declino dell’interesse del Leopardi per Ossian, anche a leggere il pensiero dello Zibaldone del 1° aprile 1829 (II, p. 1219), come l’imitazione dell’Ossian (e di Byron, Werther, ecc.) per solo una «qualche aria di novità» che sostiene l’entusiasmo anche «presente» dei lettori avidi di poesia (v. C. Muscetta, L’ultimo canto di Saffo cit., pp. 243-244). Comunque l’utilizzazione almeno lessicale dell’Ossian e dei Nuovi canti di Ossian continua in tutta la poesia leopardiana. Si potrà notare, sulla scorta dello Zibaldone, una distinzione precoce (Tutte le op. cit., II, pp. 93-94, 10 agosto 1820), fra Ossian e i greci circa il suo spirito malinconico, inglese (osservazioni già fatte del resto dal Cesarotti) e nel ’28 (II, p. 1192), un’osservazione circa la sua «uniformità» malgrado la pluralità verisimile dei suoi autori (ma non è certo un giudizio negativo). Ossian non costituí un caso di liberazione critica come quello del Monti.

128 Tutte le op. cit., I, p. 882.

129 «L’alma feroce e vile» per Serse «vile e feroce» (Calloda, III, v. 152), l’invocazione alle «mura» («O Selma, o Selma / veggo le torri tue, veggo le querce / dell’ombrose tue mura», La guerra d’Inistona, vv. 18-20 e 227-229) o per «l’armi qua l’armi» (cosí fin dalla versione dell’Eneide) il «qua, qua, brandi, elmi, / compagni allarme» del Fingal (I, vv. 64-65). E il «o moriss’io» della Morte di Cucullino, v. 331, e «Oh potess’io vederlo / pugnare giovinetto e giovinetto cader pugnando». E «O fortunate, o care / colline d’Eta!», Dartula, v. 93. E ancora «O felici color, che in giovinezza / muojon cinti d’onor!», Croma, vv. 215-216, Temora, I, vv. 529 e 639.

130 E ancora «brillami l’alma / entro i perigli e mi festegggia il core», Fingal, III, vv. 162-163. Per le citazioni del testo v. Temora, II, vv. 88-89; Morte di Cucullino, vv. 255 e 112-113; Dartula, v. 290. Uno sviluppo nuovo e piú eroico di questo gusto del pericolo è, nel Leopardi, nel Pensiero dominante, strofe 7a.

131 Colanto e Cutona, vv. 52-57.

132 Fingal, I, vv. 177-180.

133 Temora, I, vv. 386-387.

134 La Notte, vv. 235-239.

135 Fingal, I, vv. 650-652.

136 Dartula, v. 236.

137 Temora, I, vv. 198-201.

138 Canti di Selma, vv. 345-347.

139 Gatto e Colama, v v. 199-200.

140 Temora, III, vv. 485-486.

141 Per l’Ossian si ricordi la frequenza di espressioni come «queta la notte», «senza vento», «già tace il vento ed il meriggio è cheto».

142 I canti di Selma, vv. 164-169.

143 Fingal, II, v. 98.

144 La morte di Cucullino, vv. 142-143.

145 L’incendio di Tura (Nuovi Canti di Ossian, trad. M. Leoni, Firenze 1813), vv. 605-8.

146 I versi 13-14 («nel tempo giovanil, quando ancor lungo / la speme e breve ha la memoria il corso») che articolano piú profondamente il finale prima tanto piú gracile, anche se introducono una specie di interpretazione a posteriori arricchita da una esperienza piú profonda della vicenda del dolore e della sua dolcezza, prima piú immediata e quasi troppo edonistica.

147 «O graziosa stella», I canti di Selma, v. 13.

148 Berato, v. 135.

149 Comala, vv. 121-122.

150 Calto e Colama, v. 37; Fingal, IV, vv. 473-474; Comala, v. 345; Calto e Colama, v. 117; Calloda, I, vv. 215-216; Fingal, VI, v. 218; Berato, vv. 335-338; Croma, v. 16; Temora, I, vv. 357-359; Temora, VI, vv. 407-408; Oitona, vv. 11-14; Canti di Selma, vv 73-74 e 84; Fingal, III, vv. 257-259; Fingal, III, v. 528; Fingal, VI, vv. 333-334; Fingal, VI, v. 335-338; Canti di Selma, vv. 233-234; Comala, vv. 125-126; Canti di Selma, vv. 185-186; Canti di Selma, vv. 228-229.

151 Come, ad es. lo sfollarsi rapido degli altri pensieri di fronte a quello dominante nel Pensiero dominante: «Ratto d’intorno intorno al par del lampo / tutti si dileguar» (e in Fingal, V, «simili a lampo / volaron essi»). E v. in Aspasia («è notte senza stelle a mezzo il verno» e Colmul, Nuovi Canti, «qual notte senza luna e senza stelle» v. 423). E v. in Consalvo certi movimenti patetici del III del Fingal (vv. 26-28, vv. 95-97).

152 Temora, VIII, v. 311. E per il motivo della morte che separa gli amanti, si veda Dermino (Nuovi canti di Ossian), «Ahi morte! Ahi morte! / anche i piú fidi amanti ella disgiunge» (vv. 318-319).

153 Catula, vv. 13-20.

154 La forza di incidenza dell’Ortis è grandissima e, mentre molti motivi wertheriani e rousseauiani si offrono al giovane Leopardi nella ricreazione foscoliana, esso lo fu anche per Leopardi in una direzione di accentuazione pessimistica che il Foscolo venne controbilanciando nel suo sviluppo postortisiano.

155 Si veda, anche per la bibliografia precedente, il rendiconto rousseauiano di A. Frattini, Leopardi e Rousseau, Roma, 1952.

156 Si veda in proposito il libro di M. Dazzi, Leopardi e il romanzo, Milano, 1939.

157 Tutte le op. cit., II, p. 42.

158 Precisato (Tutte le op. cit., II, pp. 110-111, 3 ottobre 1820) l’interesse leopardiano per il Werther anche da un punto di vista artistico nella stessa gamma di affetti disperati distinti da quelli piú artificiosi e nordici del Byron, si può rilevare almeno una citazione zibaldonesca dal Werther, assai sintomatica: quella (fatta a correzione di un passo di Rousseau sulla corruzione prodotta dal pensiero) sulla resistenza della felicità negli incolti e nei fanciulli (le cui immaginazioni son paragonate a quelle degli antichi) che richiama il finale della lettera L (edizione Venezia 1788 – il Leopardi ne leggeva la ristampa del 1796 –): «Quando Ulisse parla del mare incommensurabile e della terra infinita, non è forse questa un’idea piú forte, piú vera, piú intimamente sentita, di quella che udire si può adesso ripetersi da ogni scolaruzzo (che si crede un portento a saper tanto?) che la terra è rotonda?». E richiama anche il ricordo del fanciullesco «strano pensiero» con cui Werther fanciullo seguiva la corrente del fiume («come io mi andava immaginando i romanzeschi paesi ch’essa doveva bagnare, come la mia fantasia restava in breve languida e spossata, mentre ch’io pur cercava di spingerla sempre piú oltre, infino a tanto ch’io mi perdea nell’oscura visione d’una invisibile immensità»). E per la vita come sogno e la felicità dei fanciulli e degli ignoranti si veda anche la lettera VII, e per la situazione del colle dell’Infinito la descrizione di «Vallaim» nella lettera VIII; e la lettera XII per la sproporzione fra ciò che è visto da lungi e ciò che è visto da vicino mentre l’anima prova la miseria del «nostro angusto e rinserrato limite» e «anela tuttavia dietro alle sfuggite speranze» (ed. cit., I, p. 49). Motivi che si inseriscono nella genesi dell’Infinito e dell’Ad Angelo Mai.

159 «Ella dorme tranquilla, né pensa che piú non mi vedrà» (XXXVII, I, p. 101) che fa poi pensare a elementi della Sera del dí di festa. E per la donna «sacra» e innocente si veda alla fine della lettera XX (I, p. 72).

160 Tutte le op. cit., I, p. 336.

161 Oltre al Paul et Virginie e alla Chaumière indienne si pensi agli Etudes sur la nature (specie a quello sulla immensité de la nature e sulla bienfaisance de la nature) anche se il Leopardi reagisce presto al senso puramente sentimentale della natura, ne cerca sostegni filosofici assenti nel Saint-Pierre e addensa, fin dal ’19 nelle poesie, elementi di critica e di dubbio sulla bontà della natura.

162 In zona italiana il Verri è uno dei piú accesi sostenitori, già negli articoli del «Caffè», del valore degli errori e delle illusioni (si v. in proposito il mio Preromanticismo italiano cit., pp. 91-98 e 269-278). Il «Caffè» manca nella biblioteca Leopardi, ma nella Crestomazia son riportati brani delle Avventure di Saffo che puntano sugli «errori utili alla società umana» e sul contrasto fra «l’intelletto e il cuore dell’uomo».

163 Tutte le op. cit., II, pp. 48-49.

164 Cosí, ad esempio, l’elogio della felicità degli animali (Notte V, Notti romane, a c. di R. Negri, Bari, 1967, pp. 227-228), o (sempre nella stessa notte, pp. 217-218) le riflessioni sulle rovine di Roma (e v. anche IV notte, pp. 184-85), o sulla vanità della gloria (I notte, pp. 180-181) o sull’animo umano proiettato verso l’avvenire o verso il passato (V notte, p. 189).

165 I notte (ed. cit., p. 42).

166 I notte (ed. cit., p. 15).

167 Ibid. e anche Notte IV, p. 180: «E però da voi che siete servi in tal carcere, può questa chiamarsi vita; ma per noi sembra morte». Naturalmente il riferimento cattolico di Verri cade in Leopardi.

168 Nello studio già citato.

169 Si tratta delle pp. 48-63 dell’edizione Silvestri rilevata nei punti essenziali secondo quanto ha fatto C. F. Goffis in Titanismo e frustrazione in due romanzi di Alessandro Verri («Rassegna della Letteratura Italiana», 2, 3, 1964). Dalle Avventure si raccolga almeno quest’altro brano (nello squarcio riportato dal Leopardi nella Crestomazia e da lui intitolata La vita campestre e solitaria, Crestomazia italiana, La prosa, a c. di G. Bollati, Torino, 1968, p. 379) in cui balena questa immagine della terra come «atomo di fango» di fronte all’universo (altra ripresa preromantica del nucleo younghiano): «vedi, o fanciulla, se chi contempla questo interminabile spazio, disseminato di astri infiniti, in mezzo de’ quali, non che Siracusa, ma tutta la terra nostra è un atomo di fango... l’intelletto non ha sufficienza a comprendere sí vasta mole; onde dopo che si è sforzato di estendersi in cosí ampio circuito, altro non gli rimane che stanchezza e ammirazione» (fra Infinito e Ginestra).

170 Non mancano nella biblioteca Leopardi altri romanzi settecenteschi (Goldsmith, Fielding, ecc.) che potrebbero essere esaminati. E dovrebbe meglio rivedersi quella Scelta raccolta di romanzi, edita dal Batelli e Fanfani, a Milano, a cui il Leopardi si riferisce per una citazione del Wieland (Tutte le op. cit., II, p. 457). Quella raccolta non figura nel catalogo della Biblioteca Leopardi, ma evidentemente il Leopardi dové vederne almeno il 25° volume che cita.

171 Non per nulla il Leopardi riporta nella Crestomazia della prosa (a c. di G. Bollati, Torino, 1968, p. 311 e p. 305), nella sezione della «filosofia speculativa», un brano delle Avventure di Saffo (Piacere che nasce da un torpore della mente) e uno delle Notti romane (Inclinazione dell’uomo al discoprire e al trovar nuove cognizioni).

172 Tutte le op. cit., II, p. 667 (pensiero del 30 agosto 1822). A p. 688 poi riparla di Wieland in appoggio all’idea della «semplicità sottilissima» di fanciulli e selvaggi. Certo anche Wieland poté offrire elementi di riflessione e di esperienza psicologica specie nel suo complesso rapporto con Rousseau, nella sua irrisione della superbia umana (nel mio saggio su Il Socrate delirante e l’Ortis – «La rassegna della letteratura italiana», 2, 1959, ora in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento – pensai che non fossero ignoti al Leopardi i Gespräche der Götter del Wieland nella traduzione italiana del 1794).

173 Le elegie del Fiorentino, con il loro petrarchismo preromantico, ben si collocano nella zona della cantica ed elegie leopardiane (e magari della loro continuazione entro il Sogno) del ’17-18 e collaborano al tono di parlato elegiaco in terzine di lata scuola petrarchesca, assecondando il gusto di quella fase fra espansione sentimentale e bisogno del paragone immaginoso agevolato anche dal Monti e dal Varano, fra narrazione, dialogo e interruzione del sentimento sopraffatto dalla propria onda patetica. Si ricordi almeno questo brano (S. Fiorentino, Poesie, Livorno, 1815, I, pp. 44-45, 51): «Ahi sposa! ahi sposa! un vol d’ombra fugace / fu il breve trapassar de’ tuoi verdi anni / e un vol fu la mia gioia e la tua pace!... Qual resta il fior, se una nemica aurora / trattien sul grembo l’umida rugiada / che il curvo stelo e l’arse foglie irrora; / tale io restai...», «Pur la conobbi e ratto al labbro corse / la parola affannata, e dissi appena / Laura... e il labbro nel dir piú non trascorse», «Son io, rispose, e mi guardò pietosa, / i’ son colei che ti diè tanta pena». Certi accordi luttuosi come i «negri panni» dello sposo vestito a lutto permasero nella memoria leopardiana fino alla seconda Sepolcrale.

174 Crestomazia poetica, ed. cit., p. 294.

175 L’errore della nota tesi dello Zottoli è in parte dovuto anche al fatto che egli guardò solo all’Arcadia e non al secondo Settecento. Il che non toglie che, a questo livello piú minuto, non si possano cogliere spesso movimenti e immagini leopardiane dei «grandi idilli» come lievemente avviati in poeti della zona propriamente arcadica: ricordo almeno dal Forteguerri il «rozzo villanello» o «la vecchiarella... si siede al fuoco con la sua conocchia / e le dita filando si consuma» (v. Crestomazia poetica cit., p. 2041 o «volta colà dove si muore il giorno» nel Ricciardetto, C. XIX, 109) o «rider i poggi ed esultar le valli» (dello Spolverini, Crestomazia cit., p. 220)

176 Si ricordino (soprattutto per Sabato e Quiete e intorno al tema del «piacere» su cui questo tipo di poesia tanto sembra «precorrere» Leopardi), il passo del Bondi: «No il posseder, ma lo sperare alletta / l’uom; che nel senso e ne l’idea di un bene, / sempre trova minor quello che ottiene, / finge sempre maggior quello ch’aspetta» (Crestomazia cit., p. 331), o del Bertola («esser meco cortese / piú che con me natura», Crestomazia cit., p. 383) o del De Rossi («ne la stagion gradita», Crestomazia p. 442 a pp. 435-36, la favoletta Dori o la felicità, per la clausola melodico-sentenziosa, o a p. 442 la favoletta della «gentil donzella che» «per sembrar piú bella» «tra il crine e tra le spoglie, / e del sen tra gli avori / al velo intreccia i fiori»; o a p. 445 «vezzoso garzoncello») e del Fiacchi, Il canocchiale della speranza, pp. 416-417, «Se l’uom dal primo lato il guardo gira, / il ben futuro mira; / guarda da l’altro lato, / e vede il ben passato». E ancora del De Rossi (molto letto dal Leopardi) si ricordino la costruzione a quadretto e sentenza finale, certi passi lievemente amari: «alla primiera gioia / succede amara noia, / rancor, tristezza e lutto» (Poesie, Pisa 1798, I, p. 58); «Amica primavera, / de’ tuoi piacer la schiera / dura, è ver, brevi giorni, / ma ogn’anno a noi ritorni; / in tutto a te simile / dell’età nell’aprile / fu la mia gioventú, / ma, oh Dio, fuggita non ritorna piú!» (Poesie, I, p. 65). Del De Rossi (che il Leopardi voleva prendere a modello di scherzi filosofici nei disegni letterari del ’28) mi pare che ritorni lo schema della Fucina d’amore (Poesie, II, XXIII) in quello piú articolato dello Scherzo composto appunto in Pisa il 15 febbraio 1828. Quanto al Passero solitario (al di là del paragone centrale alla cui massa notoria di possibili riferimenti letterari ora si è aggiunta la proposta di un preciso riferimento tardosettecentesco da parte di G. Paparelli, Il passero solitario del Leopardi e la passera solitaria di Ambrogio Viale, in Leopardi e il Settecento cit., pp. 459-470) forte è la pressione (proprio in sede di elaborazione) di stimoli letterari settecenteschi (Forteguerri, Spolverini, Parini, Savioli) indicati dal Savoca (nel suo commento cit. della Crestomazia) che si combinano con echi e ritorni di tanta poesia di secoli precedenti nella piú singolare situazione di sollecitazione letteraria di quel pur cosí originale canto.

177 Secondo me certe riprese metastasiane, già indicate dal Flora e da altri, e non preminenti, van considerate soprattutto nel loro valore di appoggio di disegno razionale analitico-sintetico e di voce del cuore («assai / palpitasti») fuori dell’incontro di canto piú forte nella zona idillica. Un Metastasio poeta razionalistico e analitico dei moti del cuore adatto soprattutto alla trama energicamente lucida che sottende l’impeto dei nuovi canti.

178 E a suo modo pittoresco è anche il nesso di gradazioni che legano tutto il canto: «orba» la notte, «abbandonata, oscura» la vita, «orfane» le collinette e piagge, «vedova» la vita senza giovinezza.

179 Ho già ricordato stimoli alfieriani, montiani, pariniani recuperabili in Amore e morte, Aspasia, Consalvo. Per Amore e morte si può forse ricordare una consonanza pariniana nell’inseparabilità di amore e morte (Mattino, vv. 326-327 «cosí ognor compagna / iva la dolce coppia»). Per le due sepolcrali ricordo ancora certi echi varaniani, pariniani («quel labbro ond’alto / par come d’urna piena / traboccar il piacer» dal quarto sonetto Per Caterina Gabrielli: «volo al bel labbro onde il piacer trabocca») e dal Parnell-Mazza: la forza del «sotterra» («tu che vivi andrai sotterra») e l’avvio alla domanda sul perché del luttuoso paramento della morte «Dunque a che pro l’inanimata salma / vestir di bruno ammanto ecc.» e l’indicazione della morte come «porto» («tranquillo asilo, inviolabil porto / contro al furor del tempestoso mondo»). E dalla lettura di quest’ode Sulla morte (Mazza, Opere cit., III, pp. 56-61) si riverbera nella Ginestra la descrizione della notte celeste: «Com’è profondo quell’azzurro in cui / l’etere si colora, e stan librate / fiammelle innumerabili, infinite, / che non perdon scintille... nel vitreo seno / riscintillando a me sceser le stelle». Per possibili consonanze con Hervey rimando al commento dello Scherillo (Canti, a c. di M. Scherillo, Milano, 3a ed., 1911) che è fra i piú ricchi dal punto di vista delle «fonti». Leopardi poteva leggere le Tombe dello Hervey nella traduzione di Palermo posseduta dalla biblioteca paterna.

180 Tutte le op. cit., I, p. 373.

181 Non riprese precise, ma uso dilatato e piú corposo della mimesi e parodia satirico-epica, dell’aggettivazione ironico-perspicua («per entro il fumo / de’ sigari onorato, al romorio / de’ crepitanti pasticcini, al grido / militar di gelati e di bevande / ordinator, fra le percosse tazze / e i branditi cucchiai») con l’incontro di parole moderne e straniere (walser, cholera, pamphlets) e forme auliche, clausole irridenti, ecc.

182 Le «volanti fragorose rote» della carrozza del generale che precede il suo esercito in fuga gridando «Avanti avanti!», ricalcano i versi 68-70 del Mattino «col fragor di calde / precipitose rote e il calpestio / di volanti corsier».

183 Il Leopardi li conosceva già nell’adolescenza e ne parlava già per la sua prima Batracomiomachia (cfr. Tutte le op. cit., I, p. 388).

184 Ne mise in rilievo alcuni E. Allodoli (introduzione e commento ai Paralipomeni, Torino, 1921), ma essi sono molti di piú e insistenti: il viaggio nell’Atlantide e la descrizione del mondo preistorico, il finale interrotto bizzarramente, la statua del cane (e nel Leopardi del topo) all’ingresso della biblioteca, l’ambasceria del cane e del can barbone (e del conte Leccafondi nel Leopardi) con la vista in tutti e due del campo di battaglia sanguinoso, il cordone onorifico di Leccafondi e del cane, l’idea dei «damerini» (e dei «damerini della patria» in Leopardi); la trovata del pelo dei congiurati (e dei liberali in Leopardi, già presente nella Palinodia); l’interrogazione del gran Corvo (e dei topi morti in Leopardi); le comuni digressioni sulla legge salica, sui riti mortuari dei popoli selvaggi; la buca del gran Cucú (e l’inferno dei topi in Leopardi); la satira delle teorie dell’equilibrio europeo e delle carte costituzionali, il trattato dell’io. E sin atteggiamenti precisi di personaggi: come è il caso della volpe del Casti e del re Senzacapo del Leopardi, nemici dei libri e dell’istruzione; o come è il caso del generale leopardiano dei granchi nel suo sputare e rassettarsi che deriva dalla satira del cane demagogo che si spurga e si «pone in contegno» (Animali parlanti, XVIII, str. 70 e Paralipomeni, I, str. 47).

185 Si veda nel Casti al VI, 68, XI, 118, XIV, 54 con l’invocazione della verità e virtú che nel Leopardi può aver appoggiato il sublime inno alla virtú del V, 47 dopo la morte di Rubatocchi: «O santa verità, o tu del cielo / primogenita figlia, e che qualora / nuda te gli presenti e senza velo, / il savio ed il filosofo ti adora, / sol da te di virtú sorgente viva, / solo da te felicità deriva». – «O verità, del ciel figlia diletta, / che spesso ascosa e tacita ti stai; / e tu santa Virtú, che sí negletta / fra noi sovente e inonorata vai, / ah se invano da altrui premio attendete, / degno premio a voi stesse ognor sarete!» – «Oh giustizia! Oh ragione! oh sacri nomi! / Siete voi qualità reali e vere, / o vane illusion, sogni e chimere?».

186 Il Leopardi mirava al centro piú profondo della posizione spiritualistico-cattolica e perciò non indugiava nella satira anticlericale e antigesuitica del Casti, non raccoglieva lo spunto anticristiano del «gran Cucú» che nel Casti ha cosí largo sviluppo e nel Leopardi invece è appena accennato («il cuculo che i topi han per divino», II, 6). E si capisce bene che tutto il rapporto è sospeso alla differenza enorme fra il gusto piú pettegolo e mediocre del pur cosí notevole Casti e l’altezza leopardiana che proprio nell’attacco ai «nuovi credenti» disprezzava chi «il bel sognò giammai né l’infinito». L’antispiritualismo leopardiano non perde mai il senso alto della complessità umana, e della sua «umana» tensione all’infinito.

187 Si ricordi almeno del Casti l’ironica designazione dei «fortunati secoli in cui siamo» (XVIII, 106) e, nel brano contro la guerra, la strofe 60 del XIV contro la superbia umana:

Ma tu, che di sí cieco orgoglio pieno

vanti mente sublime, alto talento

su quanto esiste, il tuo conosci almeno

stato di schiavitú, d’avvilimento,

mortale altiero, e su l’altrui dipoi

vanta la tua condizion, se puoi...

Circa il verso sopra citato dei fortunati secoli in cui siamo aggiungo ora una nota pubblicata nella «Rassegna della letteratura italiana», 1, 1963, con il titolo Contributo minimo al commento delle Operette morali:

All’inizio della Proposta di premi data dall’accademia dei sillografi il Leopardi introduce un verso: del fortunato secolo in cui siamo, aggiungendo «come dice un poeta illustre».

Secondo la maggioranza dei commentatori delle Operette (Antognoni, Porena, Piccoli) il predetto verso sarebbe stato inventato di sana pianta dal Leopardi, e a tale opinione accede anche il piú acuto e profondo dei commentatori delle Operette, il Fubini, osservando che quel verso «è uno scherzo del Leopardi, il quale ha foggiato un verso volutamente ridicolo e prosaico, simile a tanti di quegli endecasillabi che cadono nel nostro discorso, e lo ha attribuito, anche per farsi beffe di altri reali pseudoversi, altrettanto falsi per il suono e per il pensiero, ad un poeta reale non solo, ma illustre». Mentre il Sanesi, insieme a qualche altro, riteneva piú probabile «che ci troviamo qui di fronte ad una vera e propria citazione, pur dichiarando di non saper indicare quale sia l’illustre o pseudoillustre poeta a cui il predetto verso appartiene», e insieme proponeva, subordinatamente, la possibilità che il Leopardi avesse ripreso, e vòlto dal serio all’ironico, una reminiscenza della frase «dans les heureux siècles oú vous viviez» del dialogo fontenelliano Montaigne et Socrate.

In realtà si tratta della ripresa (con il passaggio al singolare per una piú precisa polemica contro «il secol superbo e sciocco») di un verso appunto del Casti nel XVIII canto degli Animali parlanti, nella strofa 106 che conclude in tono ironico un brano polemico contro i tempi e governi moderni in confronto con quelli antichi e con i governi degli animali:

Che se riflession, comento o glossa

faccio talor sopra il brutal governo,

lo fo perché ciascun confrontar possa

con quei tempi antichissimi il moderno

onde felicitarsi appien possiamo

dei fortunati secoli in cui siamo.

Sicché il verso, prosaico come dice il Fubini se preso isolatamente, è però già intonato, nel Casti, in una direzione ironico-polemica e la sua scelta da parte del Leopardi conferma la sua attenzione per lo scrittore settecentesco che tanto utilizzerà poi nei Paralipomeni. La controversia dei commentatori nasceva appunto dalla mancanza di questa identificazione di lettura, resa meno facile dalla qualifica di «illustre» data dal Leopardi all’autore del verso (qualifica però tutt’altro che ironica specie se si pensa al concetto che il Leopardi doveva avere di uno scrittore cosí prediletto e a lui cosí efficacemente presente).

Inoltre questo poeta «illustre» esprimeva nel suo poemetto certe idee sulla natura della poesia, che ben potevano interessare il Leopardi. Si veda questa invocazione alla Musa nella strofe seconda del canto X degli Animali parlanti:

Musa, che non di Pindo abiti i poggi,

né di Cirra passeggi i boschi e i prati,

ma nelle menti creatrici alloggi,

e nel fecondo immaginar de’ vati,

nata non da Mnemosine e da Giove,

ma dall’urto d’idee fervide e nuove...

Per un breve profilo del Casti rinvio ora al mio Settecento letterario nel vol. VI della Storia della letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1968, pp. 532-534 e 574.

188 Non capisco come il Maurer, op. cit., non abbia guardato agli ultimi canti e soprattutto alla Ginestra come prova estrema della leopardiana Auflösung der lyrischen Genera.

189 Una notevolissima raccolta di citazioni utili è contenuta nel saggio di M. Losacco, Per gli antecedenti della Ginestra (1896), in Indagini leopardiane, Lanciano, 1937, che giustamente rilevò, al di sopra di echi classici di Lucrezio, Virgilio, Lucano (cfr. G. A. Cesareo, La Ginestra e la poesia delle rovine, in Nuove ricerche su la vita e le opere di G. Leopardi, Torino, 1893), la piú ravvicinata base di «antecedenti» nella poesia e negli scritti filosofici del secondo Settecento, e porto l’attenzione su quella antologia francese di Noël-De La Place, Leçons de littérature et de morale, di cui la Biblioteca Leopardi possiede l’edizione del 1810 (io la citerò nell’esemplare che possiedo, Bruxelles 1851, 24a edizione).

190 Si veda in proposito S. Borra, Spiriti e forme affini, in Lucrezio e Leopardi, Bologna, 1911. Tutto il canto V del De rerum natura, con la poesia dell’«immenso spazio», del «voto infinito», dové esser presente al Leopardi.

191 Oltre alle letture giovanili (condizionate dai limiti della biblioteca paterna) è legittimo supporre nuove letture leopardiane della filosofia settecentesca piú ardita, nell’epoca fiorentina e napoletana.

192 Per l’interpretazione della Ginestra rimando al mio libro piú volte citato.

193 Si v. almeno (a parte l’utilizzazione delle Operette) il periodo degli Entretiens sur la pluralité des mondes (Oeuvres, Paris 1818, II, p. 61): «Notre folie à nous autres est de croire... que toute la nature, sans exception, est destinée à nos usages; et quand on demande à nos philosophes à quoi sert ce nombre prodigieux d’étoiles fixes... ils vous répondent qu’elles servent à leur rejouir la vue».

194 Systhème de la nature, Londres, 1781, I, t. II, p. 171: «Cette Providence divine se livre-t-elle au sommeil durant ces contagions, ces pertes, ces guerres, ces désordres, ces révolutions physiques et morales dont la race humaine est continuellement la victime?» «Oh homme! Ne concevras-tu jamais que tu n’es qu’une Ephemère? Toi dans ta folie prends arrogamment le titre de roi de la nature! Toi qui mesures la terre et les cieux! Toi, pour qui ta vanité s’imagine que le tout a été fait parce que tu es intelligent: il ne faut qu’un léger accident, qu’un atome deplacé, pour te faire périr, pour te dégrader, pour te ravir cette intelligence dont tu parais si fier!» (I, I, pp. 74-75).

195 Fondamentali, oltre a Candide, le posizioni pessimistiche (a parte le conclusioni deistiche) dei Discours en vers: Sur la nature de l’homme, del poème Sur la loi naturelle (per il finale esortativo alla fraterna solidarietà e contro la follia di una lotta fra gli uomini: «je crois de voir des forçats dans un cachot funest, / se pouvant sécourir, l’un sur l’autre acharnés, combattre avec les fers dont ils sont enchainés») del Poème sur le désastre de Lisbonne (che Leopardi citava nello Zibaldone, Tutte le op. cit., II, p. 1098 come abbrivo del tremendo quadro del giardino in stato di souffrance) non solo per i suoi temi generali circa le bonheur géneral e il tout est bien di Pope, ma per certi particolari di immagine e modulo eloquente («Allez interroger les rivages du Tage», e «les bords désolés») e le satire La vanité e Le marseillais et le lion (già valida per il Dialogo della Natura e di un islandese). Potrò qui per inciso ricordare che in altro senso, anche il tema dell’errore gradevole e poetico poté trovare una consonanza con il finale voltairiano del Ce qui plait aux dames («le raissonner tristement s’accrédite: / on court, hélas!, après la verité. / Ah, croyez-moi, l’erreur a son mérite»). Ma per la lettura di Voltaire occorrerebbe una ricerca vasta e particolare, specie nella direzione delle Operette morali.

196 «O qual vasto / vomitar d’infocati ignei torrenti. / Qui rivi e fiumi e ridondante piena / di bitume, di zolfo e di metalli, / disciolti in giú mover tra le volute / di fumo immense, e i nebulosi globi / di cenere, di calce ed i rotanti / enormi massi, onde coperte ed arse / qua e là campagne, e con gli armenti oppresse / ville e pastor, città, capanne e genti / ebbero morte a un tempo solo e tomba». Ed Ercolano ora «può riveder dopo tant’anni il giorno» (Opere, XVII, p. 240). Tutto il brano, che ha altri spunti usufruiti nella descrizione della riviera di Napoli, fu riportato dal Leopardi nella Crestomazia poetica.

197 R. Castel, Les plantes, 1794, nell’antologia di Noël-De La Place, pp. 293-94. «Dieu! qui reconnaîtrait ces campagnes fertiles? / Des hameaux fortunés et d’opulentes villes. / des maisons qui entouraient des bocages fleuris, / charmaient à chaque pas le voyageur surpris... / Des torrents sulfureux, des brûlantes arènes, / tous les feux des enfers, tous les fléaux des cieux, / en un vaste cercueil ont changé ces beaux lieux... / Le Vesuve en courroux sous ses monts caverneux, / recommence à mugir avec un bruit affreux, / et déchaîne, en poussant une épaisse fumée, / sur son gouffre tonnant, la tempête enflammée. / Elle échappe soudaine, et des sommets ouverts / en colonne de feu s’échappe dans les airs. / Des foudres souterrains et des roches fondues / la suivent jusqu’au ciel et retombent des nues. / Le bitume et le soufre, épandus en torrents, / roulent sur la montagne, en sillonnent les flancs... On voit, loin du volcan et de leurs toits brûlants, / errer de toutes parts les pâles habitants... Inutiles efforts; les vagues irritées / franchissent en grondant leur rives devastées... Le laboureur a vu les trésors des sillons / sortir de ses greniers en brûlants tourbillons... Nul secours, nul espoir ne s’offre à sa misere».

198 Si v. nell’antologia citata i passi sulle rovine alle pp. 316 e 317.

199 Nelle stesse pagine della nota precedente.

200 Si veda nella stessa antologia a p. 326, il brano Ruines de côtes de Naples.

201 Si veda nella stessa antologia a p. 316. E la prosa del Marmontel a pp. 37-38.

202 A parte La loi naturelle, importante per il tema generale dell’amor proprio e dell’egoismo, il Volney fu presente al Leopardi con il suo celebre libro Les ruines, carico di elementi pessimistici (anche se al solito risolti in deismo) sulla «condition de l’homme dans l’univers» (V), sulla sua debolezza e sulla sua destinazione dolorosa («Je me suis dit en soupirant: L’homme n’est-il donc né que pour l’angoisse et pour la douleur?», Oeuvres, Paris, 1838, p. 13), sullo squallore delle sue rovine (Palmira divenuta «un lugubre squelette», p. 10: «les palais des rois.... devenus le repaire des bêtes fauves»).

203 Sia nel brano dell’Invito a Lesbia Cidonia riportato nella Crestomazia poetica: «Non lungi accusan la vulcania fiamma / pomici scabre e scoloriti marmi. / Bello è il veder lungi dal giogo ardente / le liquefatte viscere de l’Etna, / lanciati sassi al ciel. Altro fu svelto / dal sempre acceso Stromboli; altro corse / sul fianco del Vesevo onda rovente. / O di Pompeio, o d’Ercole già colte / città scomparse ed obbliate, alfine / dopo sí lunga età risorte al giorno!» (vv. 129 ss.). Sia nella canzone a Lesbia Cidonia, i versi su Roma, 75-84: «prima ti volgi a Roma / che fra le sue rovine / distrutta sí, non doma / primeggia ancor fra le città reine, / e le dovizie altrui / oscura allo splendor dei pregi sui. / Qui la superba fronte / sollevan moli altere / che al tardo passeggere / del vinto mondo ancor ricordan l’onte» (canzone che però sarebbe da attribuirsi a Baldassarre Odescalchi, secondo l’accertamento – a me sfuggito quando stesi questo saggio – di C. Caversazzi nella sua edizione critica delle Poesie e prose italiane e latine edite e inedite del Mascheroni, Bergamo, 1903).

204 Si tratta dei vv. 280 ss. della Ginestra e, nei Sepolcri, l’avvio «E all’orror dei notturni silenzi».

205 Secondo F. Meregalli, che qui ringrazio per l’indicazione, il titolo della Ginestra, il fiore del deserto, poté essere suggerito al Leopardi dalla lettura (nella traduzione del Tedaldi-Fores apparsa su di un periodico napoletano durante il soggiorno a Napoli del Leopardi) della Rosa del desierto dell’Álvarez de Cienfuegos, poeta spagnolo di fine Settecento («Donde estás? donde estás, tu, que embalsamas / de este desierto el solitario ambiente / con tu plácido olor?»).